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Un burattino davvero senza fili

Nel nuovo «Pinocchio» con il piccolo Federico Ielapi e Roberto Benigni nei panni di Geppetto
Roberto Benigni e Federico Ielapi nel film. (© GRETA DE LAZZARIS/ELITE FILM)
Antonio Mariotti
18.12.2019 06:00

Ancora un Pinocchio? Sì, perché no? Il film diretto da Matteo Garrone, che da domani sarà in programmazione in molte sale ticinesi, rappresenta il tentativo (ardito) di riportare sul grande schermo un romanzo che ha già avuto molte trasposizioni cinematografiche che raramente hanno reso giustizia al classico di Collodi, pubblicato originariamente a puntate sul «Giornalino per i bambini» dal 1881 al 1883. Il film di Garrone non può esimersi, come i precedenti, da pesanti tagli rispetto al romanzo ma ha diversi pregi fondamentali che lo pongono al di sopra di molti suoi precursori, compreso quello diretto e interpretato da Roberto Benigni nel 2002.

Prima di tutto, il regista si è ispirato direttamente alle illustrazioni originali del romanzo, realizzate da Enrico Mazzanti in collaborazione con lo stesso Collodi. Da questa ricerca, che coinvolge i personaggi ma anche le ambientazioni (le riprese si sono svolte in Toscana e in Puglia), scaturisce un mondo dominato dalla miseria, dalla fame, dalla paura, da una sensazione di smarrimento che spinge Pinocchio a dare ascolto alle lusinghe del Gatto e della Volpe (tra le figure più affascinanti del racconto, qui interpretate da Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo) pur di dare un senso alla propria vita di burattino che vorrebbe tanto essere bambino ma che non si decide mai ad esserlo per davvero.

Questo ritorno «all’anima del racconto» (come la definisce Matteo Garrone) risulta molto utile anche nel riequilibrare le dinamiche di una vicenda ancora oggi davvero universale, perché - come notava già Benedetto Croce - «Pinocchio è la vita» e come altre fiabe presenta un catalogo quasi esaustivo dei destini umani. Così, la Fata Turchina è dapprima una bambina (Alida Baldari Calabria) compagna di giochi di Pinocchio e poi una giovane figura materna (Marine Vacth) senza troppi orpelli magici, mentre il Mangiafuoco tratteggiato da Gigi Proietti è più un uomo solitario alla ricerca di un amore filiale che un feroce despota. Questo Pinocchio si concentra quindi, più che giustamente sul rapporto tra padre (Roberto Benigni) e figlio (Federico Ielapi), tra chi è cosciente del destino che gli tocca vivere e chi invece questo destino non lo vuole accettare, ribellandosi ad ogni forza di coercizione e imponendosi come un burattino davvero senza fili.

A questa opportuna «messa a fuoco» contribuisce in modo sostanziale il lavoro del truccatore Mark Coulier (Oscar per Grand Budapest Hotel e The Iron Lady) che crea dei personaggi a metà strada tra realtà e fantasia che diventano maschere fantastiche senza perdere nulla della propria espressività. A un Benigni emaciato e barbuto si contrappone così un Pinocchio di legno ma che sembra di carne.

Ma che messaggio può veicolare Pinocchio ai ragazzi di oggi? Matteo Garrone non ha dubbi: «Quello di fare attenzione alla realtà che ci circonda, alla violenza che c’è intorno a noi e quindi ci mostra quali sono le conseguenze per Pinocchio di questa disattenzione». Una dinamica negativa che verrà spezzata soltanto dal Pinocchio bambino, personaggio senza più interesse che il film abbandona in maniera un po’ brutale in una scena conclusiva che risulta la meno memorabile di tutte.