Un crimine da ridere

Martedì 8 e mercoledì 9 febbraio il LAC metterà in scena Il delitto di via dell’Orsina con Massimo Dapporto, volto noto anche nel piccolo schermo e per la prima volta al lavoro con la regista Andrée Ruth Shammah del Teatro Franco Parenti di Milano, che ha curato la regia e l’adattamento della commedia scritta da Eugène-Marin Labiche. «Una commedia che - si legge nelle note di regia - con la sua ironia e la sua precisione, riesce a farsi largo tra la frenesia e le preoccupazioni che accompagnano il nostro presente, per prenderci per mano e farci trascorrere una serata divertente e leggera eppure non superficiale». Ne parliamo con il protagonista.
Massimo Dapporto, ci vuole descrivere il personaggio che interpreta in questa commedia?
«Oscar Zancopé ha molte cose che non sono mie e altre che invece sento vicine al mio carattere. È un uomo che forse non ha tante qualità. È solo, come tutti in questo spettacolo. È sposato, è vero, ma ha un rapporto borghese con sua moglie. È un Don Giovanni a riposo, che si è accasato con una donna ricca per questioni di tranquillità economica. Non è un lavoratore. Cerca di essere sempre elegante a casa, anche se nella prima scena si sveglia dopo una notte di bagordi, per cui è tutto scarmigliato. È un personaggio divertente, come lo sono tutte le figure del Delitto di via dell’Orsina, perché questa è una commedia basata sull’eleganza nel linguaggio: infatti non diciamo mai parolacce. Si ride, certo, ma intelligentemente».
Una commedia dunque leggera, ma non per questo sciocca...
«Assolutamente no, non è la solita “pochade”, porte che si aprono e che si chiudono, personaggi che entrano e che escono. Non è assolutamente questo. André Shammah ci ha visto abbastanza lungo: vogliamo far ridere, ma senza calcare troppo la mano».
È la prima volta che lavora con Andrée Ruth Shammah?
«Sì, io e la Shammah ci siamo conosciuti e scoperti nello stesso periodo. È capitato quando sono andato per la prima volta al Franco Parenti con uno spettacolo, Un borghese piccolo piccolo. Mi hanno detto: “Guarda che stasera c’è la Shammah. È una dura, molto critica”. Alla fine della rappresentazione è venuta ad abbracciarmi e mi ha detto: “Dobbiamo parlare di lavoro”. Ci siamo sentiti subito dopo, ma il progetto è stato bloccato per due anni a causa della COVID. Adesso siamo finalmente riusciti a portarlo in scena».
Come è stato lavorare con lei?
«Mi sono trovato benissimo, anche se - devo ammetterlo - è stato faticoso: è puntigliosa, ritorna spesso sulle battute. Confesso di non aver mai lavorato così intensamente per uno spettacolo, anche perché sono abbastanza pigro».
Ha fatto fatica a calarsi nel personaggio?
«Non dia retta a tutto quello che dicono gli attori: il personaggio, che diventa tutto intellettuale, tutto serio... non è così! Non ci si cala nel personaggio. Lo si studia. Se ne studiano le battute e poi lo si interpreta. Sono io il personaggio. C’è molta insopportabile retorica da parte degli attori sull’interpretazione dei ruoli. Quando per esempio dicono: “Come fai ad uscire dal personaggio?” Veramente difficile.... Ma cosa vuoi che succeda, quando finiscono le prove, quando hai detto per l’ennesima volta la tua battuta, fino alla nausea? Vai nel camerino, ti togli i vestiti di scena, ti metti i tuoi, ti fumi una sigaretta e vai con i tuoi amici al bar. Il personaggio lo incontri il giorno dopo, purtroppo. Perché lo rifacciamo per duecento volte: non se ne può più!» (ride, ndr).
Lei ha un approccio alla recitazione disincantato e lontano dalla retorica...
«Mi piace costruire i ruoli con il o la regista, visto che sono io il personaggio. Faccio un esempio: quando ho interpretato Falcone per la TV, ho studiato molto. Mi sono letto tante cose, sono stato a fare ricerche, ho fatto delle interviste. Fa piacere ad un attore essersi avvicinato alla persona, non al personaggio. Differente il caso del teatro, dove il personaggio è già costruito, sulla carta».
Volevo tornare sulla questione della COVID. I teatri non hanno riaperto certo ieri, ma sono stati chiusi a lungo: che effetto fa ritornarci?
«Devo dire che i veri eroi sono gli spettatori. I quali, amando il teatro, anche se mettono un po’ a rischio la loro salute, vengono a sedersi in platea e ci seguono. La situazione non è drammatica, direi, ma difficile: le compagnie di giro come la nostra, che hanno organizzato il tour in varie regioni d’Italia, se la cavano, perché se andiamo in un Comune dove troviamo pochi spettatori, non perdiamo i proventi poiché lo spettacolo è pagato dall’Ente pubblico. Però va detto che si è perso almeno il 50% del pubblico, perché i teatri sono attualmente a metà capienza. È dunque un po’ una scommessa andare in giro con una compagnia. Camminiamo sul filo del rasoio, considerando che se un attore o un tecnico si ammala, bisogna annullare. Speriamo insomma che questo momentaccio passi presto».
La «star» e la regista: Massimo Dapporto e Andrée Ruth Shammah

Massimo Dapporto è un figlio d’arte, primogenito del compianto attore Carlo Dapporto, una delle figure centrali dell’intrattenimento italiano teatrale, cinematografico e televisivo di buona parte del Novecento. Ha seguito le orme paterne formandosi prima come attore di teatro poi, di cinema e fiction-TV. Nel 1987 ha interpretato il tenente Fili dell’esercito italiano in Soldati - 365 all’alba di Marco Risi, con Claudio Amendola e Ivo Garrani. Nel 1988 con il film di Francesca Archibugi Mignon è partita, con Stefania Sandrelli, si è aggiudicato il David di Donatello quale miglior attore non protagonista. Tantissimi i suoi ruoli televisivi, dall’esordio nella fiction All’ultimo minuto di Ruggero Deodato nel 1973 alla recente miniserie Alfredino - Una storia italiana di Marco Pontecorvo. Tra i suoi ruoli più celebri quello di Giovanni Falcone nel film per la TV Giovanni Falcone – L’uomo che sfidò Cosa Nostra, del commissario Fontana in Distretto di polizia 7 e di don Marco in Un prete tra noi.
La regista Andrée Ruth Shammah arriva nel mondo teatrale alla fine degli anni ’60 come assistente alla regia nel Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, dove conosce Franco Parenti. Il 16 gennaio 1973 viene inaugurato il Salone Pier Lombardo, attuale teatro Franco Parenti, con la sua prima regia: L’Ambleto di Giovanni Testori. Completerà la Trilogia degli scarrozzanti curando le regie di Macbetto (21 ottobre 1974) ed Edipus (27 maggio 1977). Da allora, ha curato svariate e sempre apprezzate regie, impostesi per una concezione dello spazio scenico, proiettato verso una forma di teatro aperto e libero dai soliti cliché.