Agendasette

Un eterno Peter Pan dai mille volti

Il 4 dicembre al Palexpo di Locarno arriva il re del trasformismo Arturo Brachetti con «Solo»
© Paolo Ranzani
Red. Online
02.12.2021 18:31

È l’incontrastato re del trasformismo teatrale, erede di quella tradizione che ebbe in Leopoldo Fregoli il primo grande interprete e che nell’ultimo quarantennio ha non solo valorizzato ma addirittura esaltato con funamboliche performance valsegli una notorietà planetaria e un posto nel Guinness dei Primati per la velocità con cui sulla scena riesce a cambiar abito e pelle. È Arturo Brachetti che sabato 4 dicembre torna in Ticino, al Palexpo (ex Fevi) di Locarno, con Solo, spettacolo (inizio alle 20.30) con cui riabbraccia il pubblico dopo quasi due anni di assenza. Un biennio che il 64.enne artista piemontese non ha vissuto proprio in modo ideale. «La sensazione che ho avuto durante il periodo della COVID è stata di essere inutile. Mi è infatti mancata l’opportunità di adempiere a quella che considero la mia missione esistenziale: far ridere e far divertire. Io da ragazzo ho trascorso sei anni in seminario. È lì che ho imparato, da un prete, a fare dei giochi di prestigio. Lo stesso sacerdote, don Silvio Mantelli, quando a 17 anni lasciai il seminario, mi disse: non è importante avere una vocazione religiosa. È importante avere una vocazione. Se la tua vocazione è quella di far sognare, di far sorridere, perseguila. Da allora questo insegnamento mi accompagna: tutto il mio lavoro, negli ultimi 40 anni, è stato indirizzato a questa missione in assenza della quale io non esisto. Ecco perché questo spettacolo è importante, perché ritrovare l’adrenalina del palcoscenico, l’entusiasmo degli spettatori, gli applausi, dà di nuovo senso alla mia vita».

In questa sua quarantennale «vocazione» come è cambiato il modo di porgersi al pubblico?
«Agli inizi, parlo del 1978, quando inventai il mio primo numero di trasformazione con sei personaggi, il sogno era quello di approdare in un music hall di Parigi. Beh, dopo meno di un anno ero già a Parigi nella miglior produzione del settore. Dunque già alla prima tappa avevo raggiunto il mio obiettivo. A quel punto mi sono imposto sfide sempre più ardue. Il risultato è stato trasformarmi da artista che faceva giochi di prestigio cambiando sei volte abito, in un attore che recita in varie lingue, si cimenta con le ombre cinesi, i disegni sulla sabbia, il canto e con ben 450 differenti costumi. C’è stata poi un’evoluzione anche nello strutturare i vari numeri che inizialmente erano in stile music hall: poi mi sono reso conto che attraverso le trasformazioni potevo raccontare anche altre cose, per cui ho cominciato a mescolare metamorfosi, cultura, racconti».

Punto focale resta comunque il trasformismo...
«Essere qualcun altro è un mito che l’uomo coltiva da sempre. Tutti, in ogni tempo e in ogni cultura, hanno sognato almeno una volta di essere qualcosa di diverso da quello che sono: un dio, un semidio, un supereroe, un calciatore famoso... Naturalmente nell’infanzia questo desiderio è ancora più forte : “facciamo che io ero” è uno dei giochi preferiti dei bimbi. Però la gente viene a vedere lo spettacolo sì per le metamorfosi esaltate dal manifesto – 65 personaggi in un’ora e mezza – ma anche per imbarcarsi in un viaggio onirico in mia compagnia. In Solo, infatti, dopo una girandola di trasformazioni nei primi 10 minuti, lo spettatore viene coinvolto in una storia che è quella di un Peter Pan sessantenne che fa pace con la sua ombra (interpretata da un altro attore in scena con me, l’americano Kevin Michael Moore) la quale vuol riportarlo sulla terra. Perché questo è il compito dell’ombra: stare coricata sulla strada, sui muri, attaccata alla terra, al contrario del protagonista che invece vuole volare. Alla fine i due riescono a fare pace: il protagonista capisce infatti che nella vita è giusto avere dei sogni ma sempre tenendo i piedi per terra. È un po’ la saggezza della nonna ma è una conclusione nella quale la gente si riconosce, specialmente chi ha più di 30 anni e si è reso conto che l’esistenza è fatta anche di compromessi, che le trasformazioni sono normali, necessarie e vitali».

Dunque lei in qualche modo giustifica quel trasformismo sociale e politico che oggi impera e a proposito del quale lei viene sempre tirato in ballo?
(ride) «Mi sono abbonato ad un servizio di Google che ti segnala quando il tuo nome appare da qualche parte e spessissimo mi arrivano segnalazioni di un utilizzo abbinato a qualche politico... E non solo in Italia, anche in Francia e nel resto dell’Europa. E, se devo essere sincero, non mi dispiace essere identificato come il simbolo del trasformismo. Però non vorrei che la trasformazione venga vista solo negativamente: se infatti nell’Ottocento gli uomini erano tutti di un pezzo, saldamente aggrappati alle loro granitiche idee dalla giovinezza alla morte, nel XX secolo le cose sono cambiate, anche a seguito delle grandi e veloci trasformazioni della società. Ovvio che sia mutato l’approccio ad ogni cosa. Cambiare, trasformarsi, oggi fa parte dell’evoluzione. Farlo in maniera incosciente, come succede in certi contesti, però non è buona cosa».

A proposito di evoluzione: quanto i nuovi media hanno inciso sul suo modo di fare spettacolo?
«Sono stato uno dei primi attori ad avere un sito internet. L’ho attivato già nel 1991, quando il mio server era ospitato dal Politecnico di Torino. Questo per dire che sono sempre stato affascinato dalla tecnica. Oggi ho una squadra di social media manager che mi aiuta a gestire Facebook, Instagram e Tik Tok e tutti i nuovi mezzi di comunicazione. Che però rimangono tali: dei mezzi per comunicare e non per fare spettacolo. Il teatro, a mio avviso, come l’amore, va fatto dal vivo: è un momento fisico, di empatia, di scambio di energie. Non è solo ciò che si vede e si sente ma un misto di odori, vicinanze, condivisione: è energia vera, che io sento quando il sipario è chiuso e il pubblico rumoreggia e che anche la gente percepisce. Da sempre nella storia umana le gradi cose - belle ma anche brutte - nascono dalla folla, dagli esseri umani riuniti per difendere un’idea, per condividere un momento di entusiasmo, di gioia. Mi spiace tanto per chi crede che il futuro sia fatto solo di internet, ma non sarà così».

Crede che il recente lockdown abbia fatto aumentare la sensibilità nei confronti di questo contatto «live»?
«Il lockdown ha creato una pigrizia incredibile. La vedo quotidianamente ovunque: la sera la gente non gira più, se ne sta rintanata in casa. Anche i giovani. Ma ci si stufa di tutto. E così accadrà anche di questa prigionia. Anzi, sta già accadendo: la gente che è tornata teatro, che si vaccina e che fa tutto quello che è necessario per riprendere la vita normale è infatti molto più entusiasta di prima, proprio perché ritrova qualcosa che gli era stata vietata. E le cose vietate sono sempre le più preziose».

La COVID è entrata nei suoi spettacoli?
«No, per niente. Anzi il mio spettacolo ti porta lontano dalla COVID: per un’ora e mezza è infatti un viaggio di fantasia in un altro mondo, lontano da questo biennio che tutti vorrebbero dimenticare al più presto. E di ciò la gente mi è grata».

A proposito dello spettacolo, gli organizzatori sottolineano come, viste le incertezze legate alla pandemia, oltre al COVID Pass sarà obbligatorio indossare la mascherina anche in sala.

Scoprite di più sugli eventi in programma dal 3 al 9 dicembre sfogliando AgendaSette n. 48, in allegato venerdì al Corriere del Ticino e sempre a portata di clic con l’app CdT Digital.