Grande schermo

Un film troppo piccolo per una grande storia

«Monte Verità» di Stefan Jäger delude le attese nonostante un importante sforzo produttivo
Una parte delle riprese di «Monte Verità» si sono tenute nel Locarnese. © DCM FILM DISTRIBUTION
Antonio Mariotti
04.09.2021 06:00

Nel 1966 Dino De Laurentiis produsse uno dei suoi kolossal più ambiziosi e, per molti versi, folli: La Bibbia. In quasi tre ore di puro entertainment hollywoodiano con qualche addentellato italiano (nel cast figurano Franco Nero come Abele e Pupella Maggio come la moglie di Noè), il regista John Huston (agnostico convinto) racconta i primi 22 capitoli della Genesi regalando al pubblico di allora alcune perle spettacolari come la sequenza dell’arca di Noè e quella della torre di Babele. Come scrisse il regista americano a proposito di questo film: «Le autorità ecclesiastiche hanno così paura delle controversie dogmatiche che preferiscono vedere un ateo che filma la Genesi piuttosto che un cattolico».

Tema di ampio respiro

Questa premessa storica non vuole certo dare origine a parallelismi irriverenti ma dovrebbe farci ricordare che per affrontare tematiche di ampio respiro servono in primo luogo produttori spregiudicati e «creativi» e registi di grande esperienza, non necessariamente in sintonia con lo spirito del soggetto trattato. Nulla di tutto ciò, purtroppo, si ritrova in Monte Verità, il lungometraggio diretto dal regista svizzero Stefan Jäger presentato in anteprima in Piazza Grande durante l’ultimo Festival di Locarno. Scelta tacciata da alcuni come «sciagurata» da parte del neo direttore artistico della rassegna Giona Nazzaro, senza considerare il fatto che nel recente passato il cinema svizzero non ha certo sempre brillato sul megaschermo locarnese. Del resto, l’errore (o la presunzione) maggiore del film sta proprio nella scelta del titolo: Monte Verità fa balenare nella mente dello spettatore l’idea di assistere a una ricostruzione più o meno esaustiva di quel mitico fenomeno culturale e sociale che all’inizio del ventesimo secolo ha fatto assurgere la collina asconese a vero e proprio «santuario» di un modo di pensare e di vivere in netto contrasto con quanto stava accadendo in quei decenni in Europa. Un movimento che ha visto transitare dal Ticino numerosi artisti e intellettuali di altissimo profilo. Purtroppo queste aspettative vengono totalmente deluse da una storia che, pur partendo da uno spunto originale - il personaggio inventato di Hanne Leitner, giovane donna borghese in fuga da Vienna e da un marito dispotico, che sarebbe diventata la fotografa ufficiale della comunità - non decolla mai veramente, finendo per ridurre i pochi accenni a personaggi conosciuti (come il giovane Hermann Hesse) a ridicole macchiette.

Quella luce del Sud

Ciò non significa che il film non sia tecnicamente valido, al contrario le immagini curate da Daniela Knapp sono spesso suggestive e riescono a far sentire l’intensità di quella «luce del Sud» che deve aver affascinato chi giungeva sulle rive del lago Maggiore. Il punto di vista scelto dalla sceneggiatrice Kornelija Naraks è adeguatamente femminista, ma ciò provoca degli inaspettati (e fastidiosi) cortocircuiti tra passato e presente che non aiutano a penetrare nell’atmosfera del tempo. Anche il cast è decisamente ben assortito: la protagonista, Maresi Riegner, ha il volto e la tempra per dar corpo a una figura ricca di dubbi e contraddizioni, continuamente in bilico tra senso del dovere e aneliti di libertà. Gli altri interpreti (tra cui spiccano Max Hubacher, Julia Jentsch e Joel Basman) fanno del loro meglio per dar vita a personaggi credibili. Ma ciò non basta, così come non bastano né le ambientazioni curate da Katharina Wöppermann e Nina Mader, né i costumi ideati da Veronika Albert. Monte Verità sembra non avere il coraggio di voler affrontare il nocciolo della questione che racchiude nel titolo, girandovi attorno inutilmente. Insomma, sarebbe come pensare a La Bibbia di John Huston senza l’arca di Noè e la torre di Babele.