L'intervista

«Un inno al rispetto e alla libertà del desiderio»

Mario Desiati ha vinto il Premio Strega con «Spatriati» – «Nel dialetto pugliese il termine vuol dire “irregolare”, qualcuno che non è conforme alla convenzione sociale»
Francesco Mannoni
11.07.2022 06:00

Trionfare al Premio Strega, per uno scrittore italiano, è motivo di grande soddisfazione. Farlo in un’edizione quale quella di quest’anno (che per la prima volta ha visto non cinque bensì sette autori in finale) regala emozioni ancora maggiori. Così è per Mario Desiati che con Spatriati ha sbaragliato tutti forte di un testo nel quale, spiega, «c’è un elemento generazionale e racconta un periodo storico. La linea narrativa e cronologica dell’identità dei personaggi ricalca infatti il passato dei trentenni o quarantenni che sono gli adulti di oggi».

Un romanzo nel quale l’intreccio narrativo e sentimentale è caotico. Francesco, liceale pugliese un po’ imbranato è attratto da Claudia, ragazza libera e indipendente aliena a regole di ogni tipo. Il padre di Claudia, primario ospedaliero, è invece l’amante della madre di Francesco, infermiera dello stesso ospedale nelle cui corsie è iniziata la relazione adulterina. In un sovrapporsi di animi esasperati, emozioni e lussuriosi coinvolgimenti, Francesco, un po’ depresso, ancora incerto sui propri gusti sessuali è teso ad un rapporto stabile con Claudia che invece passa da un’esperienza all’altra senza problemi e trascina colui che ritiene solo un caro amico in una girandola di incontri e separazioni. «Nella loro vita non c’è ideologia», puntualizza lo scrittore. «Si abbandonano al processo di evoluzione della propria identità. Non respingono i cambiamenti, non fanno nessun tentativo di mettere i loro comportamenti come barriera. Loro sono aperti ai cambiamenti perché sono aperti al mondo e alle persone che li circondano. Ma è una cosa che avviene in loro in modo naturale. Non hanno necessità di verbalizzare il loro progredire nell’insieme del nuovo mondo e delle convenzioni che gli cadono addosso». E questo li rende degli Spatriati a casa loro, sospesi in un limbo provinciale tenace ma improduttivo. Claudia sarà la prima ad abbattere i muri che si oppongono al suo espatrio reale, viaggiando in molte parti del mondo e trovando poi tra Milano e Berlino una sorta di approdo passionale tra insoddisfazioni operative e attrazioni saffiche.

Chi sono generalmente gli «spatriati»: chi lascia la propria terra e dimentica le proprie origini? E quali limitazioni crea questa condizione, o quali sentimenti sviluppa nell’intimo di chi è in tale stato esistenziale?
«Sono tutto questo e molto altro. Nel dialetto pugliese il termine vuol dire “irregolare”, qualcuno che non è conforme alla convenzione sociale. Si tratta magari di persone adulte che hanno raggiunto una certa età ma non si sono sistemate con una famiglia, non hanno un’idea di lavoro precisa, non si sa dove vivono o semplicemente sono persone che vivono una vita diversa dagli altri e perciò l’essere “spatriati” riguarda chi va via, ma anche chi rimane e non è conforme alla nostra società. La parola ha quasi un doppio senso se legata ai due protagonisti: uno è molto legato alla sua terra e anche se va via, non è mai andato via, mentre l’altra è espatriata a 15 anni. Questo tipo di atmosfera, di libertà personale, ma anche di fare le cose che gli altri pensano che non devono essere fatte».

Si può essere spatriati anche restando a casa propria?
«Certamente. Se decidi di vivere lontano dalle convenzioni e dall’oppressione sociale, questo ti rende agli occhi degli altri uno “spatriato”, in quanto i valori delle convergenze comuni finiscono per essere diversi rendendo la tua vita, agli occhi degli altri, diversa, obliqua, sghemba».

Perché la vita di provincia sembra esprimere ancora un senso di pochezza, di intraducibilità morale?
«Perché molti la vedono come una fossa. Per me, invece, la provincia ha lati negativi e positivi come la vita metropolitana: uno può trovare nella provincia degli aspetti che esaltano la propria diversità, come il protagonista del mio libro, Francesco, che a un certo punto capisce molte cose. Per altri quella dimensione non va bene e si trova meglio in un altro posto dove la sua vita può essere in armonia, o comunque non in contrasto con altre forme sociali, come fa Claudia. La provincia non è dunque cattiva come può sembrare: dipende dal singolo individuo. Chi ci resta non ha trovato nella provincia una fossa, e chi va via è solo perché si trova meglio in un altro posto».

Lei definisce Claudia, il personaggio femminile di Spatriati , «anarchica e candidamente pornografica»: un modo poetico, carino per definire un comportamento piuttosto libertino?
«Claudia è una persona libera che non ha paura delle sue conseguenze e le sue libertà seguono l’istinto. Lo stesso vorrebbe fare Francesco, ma ancora è scisso in se stesso e vive questo oscillamento mentre lei cova la vita per capire qual è la sua esistenza precisa. E non è un caso se lei alla fine finisce per trovarsi bene con una donna, in una sorta di famiglia arcobaleno, allargata».

Quella di Claudia e Francesco è la storia di un grande amore a senso unico o di una grande illusione nutrita da entrambi come una remota via di fuga?
«Secondo me è una relazione libera che si basa sul fatto che entrambi sono liberi e veri ed è una verità che li rappresenta solo quando stanno insieme. Non necessariamente devono vivere come una coppia che ha degli impegni. È una coppia sui generis perché loro donano il loro tipo di amore, la loro relazione, ma non potranno mai stare insieme perché per loro la relazione non è normativa: è fuori da tutti gli schemi. Questo loro amore è speciale, è un amore spatriato: l’uno per l’altra è l’unica patria che riconoscono in quel tipo di personalità e di identità. Ma nello stesso tempo avranno altre relazioni con altre persone, vivranno sempre liberamente fino in fondo le loro esperienze. È proprio un inno alla libertà del desiderio e del rispetto dell’altro. Volevo evidenziare la loro unicità di persone che non hanno necessità di fare una vita ricca dal punto di vista economico, non hanno bisogno di cercarsi per forza un lavoro per soddisfare certe aspirazioni. Lei va a lavorare in un istituto di cura, lui fa l’agente immobiliare pur avendo delle aspirazioni artistiche».