Un tempo per lottare e un tempo per cantare

Ogni guerra ha bisogno di una retorica. E la retorica è come un farmaco, non cura l’orrore di una guerra, ma aiuta a sopportarne sintomi e conseguenze. Se questa che stiamo vivendo è una guerra – e mai parola è stata tanto usata e abusata come in questi giorni – allora deve portarsi con sé tutta la retorica che ne consegue. Può irritare, perché è una retorica che assomiglia troppo a quella che si usa nel linguaggio pubblicitario per venderti il biscotto al cioccolato ma non ne abbiamo altre. Ma durante le guerre la retorica aiutava a sopportare il dolore anche perché era vietato ballare. E implicitamente era vietato trasmettere musica in luoghi pubblici, eccetto le marcette e gli inni che fortificavano lo spirito. Ci sono due film eloquenti. Il primo è l’ultima pellicola girata da Pier Paolo Pasolini: Salò. Un film crudo, durissimo, scandaloso per molti versi, come sapeva essere scandaloso Pasolini. Quando finisce l’orrore della guerra, due giovani militari mettono un disco sul grammofono e uno chiede all’altro: «sai ballare?». E l’altro risponde: «Proviamo». Su questa scena termina il film. Una scena simile si può vedere in un altro film, più recente, di Paolo Taviani, tratto da un celebre romanzo della letteratura italiana: Una questione privata di Beppe Fenoglio. Siamo in piena Resistenza, Milton e Fulvia, i due protagonisti, ballano ma si chiedono se sia lecito. Perché ballare era vietato.
La musica e il dolore
Il rapporto tra la musica e il dolore è un rapporto complesso. La musicoterapia è cura. La musica scacciava il morso velenoso della tarantola in un ballo rituale diffuso in buona parte del Sud Italia. Dal Salento alla Campania, alla Calabria: si chiama pizzica o tarantella. Quando nel 1943 gli americani sbarcano in Sicilia, assieme al cioccolato e alle sigarette si portano per l’Europa anche i dischi dell’orchestra di Glenn Miller, con In the mood. È una storia che conosciamo e quelle erano guerre, non nel senso figurato della parola, ma nel senso reale, drammatico e autentico. Anche questa è una guerra. Nel senso che si combatte un nemico, che ci sono morti e sofferenze. È una guerra combattuta da tutti. Da chi si chiude in casa, da chi sta negli ospedali, da chi batte lo scontrino del supermercato, da chi continua a lavorare perché ci siano i servizi essenziali.


Ma la musica resta un elemento fondante per distrarsi, per darsi un po’ di coraggio. Si cantava per i balconi, quando i morti non erano ancora troppi. E ora si canta meno, perché i morti sono troppi. Non si balla per le strade certo. Ma tutti i musicisti in Italia, e non soltanto in Italia, hanno trovato un modo per rispolverare i propri successi in versione «unplugged» (acustica), sfruttando le possibilità del web, delle dirette sui social network. E alcuni hanno anche scritto delle canzoni appositamente, per invitare a donare nelle sottoscrizioni, per incoraggiare, per regalare al pubblico un po’ di sollievo. Solo che hanno iniziato troppo presto. Non hanno aspettato la discesa della curva pandemica, il momento in cui, proprio per le difficoltà di ricostruire e iniziare una nuovo capitolo ci sarebbe bisogno di una carica, di una spinta. È stato subito tutto un vedrai che cambierà, ce la faremo, saremo uniti. E via dicendo.
Tutto e subito
E qui si aprono due aspetti non marginali: se questo accade, che ancora siamo dentro la battaglia più seria, allora la musica non è un modo di uscirne, ma può diventare qualcosa di offensivo, retoricamente offensivo. Non si può cantare l’ottimismo mentre ci sono i morti per le città, e le terapie intensive intasate. Gli americani hanno portato Glenn Miller a guerra finita. Non prima. Il secondo aspetto è questo maledetto tempo che non siamo più capaci di gestire. Tutto è subito. Il pacco di Amazon arriva in giornata, la Pandemia dovrebbe durare un giorno solo. E poi si volta pagina. E poi si deve cambiare, per chi non lo vive direttamente anche il dolore annoia. Sarebbe bello accadesse questo. Ma non è così. Le vedove sarde portavano il lutto anche dieci anni.


Oggi pensiamo che sono rituali di dolore che non si addicono più alle nostra società, ma il lutto è il dolore elaborato con il tempo, è un modo del tempo. E il dolore va rispettato. Anche quando ti è lontano, anche se riguarda gli altri. Si volta pagina, quando la pagina è finita. Non prima. Se lo fai prima perdi il senso di quello che leggi, delle parole. E il mondo diventa incomprensibile. Forse anziché testi un po’ facili e un po’ inopportuni si dovrebbe mandare una vecchia canzone, C’è tempo, di un genio schivo che non canterebbe mai, in alcun modo, in queste circostanze: Ivano Fossati. «E c’era tutto un programma futuro / che non abbiamo avverato. / È tempo che sfugge, niente paura / che prima o poi ci riprende / perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo / per questo mare infinito di gente». Ecco: «There will be time», come in un verso di T. S. Eliot. Ci sarà tempo, quando verrà, quando sarà il tempo giusto.