L’intervista/laura pariani

«Una donna eroica nel torbido Seicento»

La popolare scrittrice lombarda racconta i temi del suo ultimo romanzo storico
Un dettaglio della copertina del romanzo edito da La nave di Teseo.
Francesco Mannoni
24.05.2019 06:00

Nel suo nuovo romanzo Laura Pariani, ricrea - con un linguaggio magistralmente adattato alla parlata del tempo -, una delle tante lotte contadine per la sopravvivenza capitanata da una donna travestita da uomo. Intrepida e motivata come la Giovanna D’Arco d’Oltralpe, la giovane dell’Alto Milanese che si faceva chiamare Bonaventura Mangiaterra e sapeva leggere, nel 1652 capeggiò un manipolo di terrieri in rivolta affascinandoli con una sua personale narrazione dei fatti narrati nell’Antico e del Nuovo Testamento. Ed è così che «Il gioco di Santa Oca» (La nave di Teseo) diventa un gioco per la vita, quella che Bonvantura sacrifica per consentire alla compagna Pùlvara di salvarsi.

Signora Pariani, cosa c’è di vero nella storia di questa Giovanna d’Arco del Milanese?

«Di vero c’è lo sfondo storico di una Lombardia occupata dagli Spagnoli: oltre tutto la brughiera della valle del Ticino, in quanto zona di frontiera, era continuamente percorsa da eserciti dediti al saccheggio. È la Lombardia manzoniana in cui la guerra e la peste sono intese come punizioni del Cielo: qui carestie, balzelli statali, arruolamenti forzati dei terrieri, decime e lavoro obbligatorio a favore del signorotto locale sono la quotidianità. Nelle pagine della storia ufficiale che rimangono negli archivi, il diritto della Spagna a dominare sul Milanese non viene messo in discussione; sono dipinti come “esecrabili eretici” i soldati imperiali luterani e come diabolici i Francesi; e la gente comune è considerata “plebaia”. Vero è il fatto che la ribellione dei terrieri cova e a volte si accende in momenti di cupa ferocia; e vera è la credenza che la brughiera sia zona di “incanti” e “strie”, per cui la vigilanza del Sant’Uffizio fu costantemente in allarme».

Quali erano i reali sentimenti di una ragazza travestita da uomo che diventa capopopolo?

«Impossibile per una ragazza di quell’epoca comandare una banda armata o farsi ascoltare in pubblico, se non sotto un travestimento, la qual cosa non era assolutamente infrequente nel Seicento. Ci rimangono molte testimonianze; ne cito due a mo’ di esempio: le memorie della monaca che seguì i conquistadores in Cile, combattendo come alfiere, oppure i diari di Maria Mancini, sposata Colonna, che fuggendo da Roma traversò l’Europa in braghe maschili. Ma sotto l’armatura la femminilità resiste e la donna travestita fa della sua “debolezza femminile” un punto di forza».

Un capopopolo-donna: figura insolita di quel periodo, o le donne tutte hanno avuto un ruolo più che importante nella rivolta?

«Come potremo mai saperlo? I personaggi femminili nei libri della storia ufficiale sono entrati solo se regine o principesse. Ci sono perciò storie che non arriveranno mai a essere raccontate. Non capita solo per le donne, ma anche per le cosiddette classi subalterne; ricordo che una volta in un archivio di Buenos Aires - cercavo alcuni particolari sulla storia degli italiani d’Argentina nell’Ottocento ed espressi a voce alta la mia indignazione sulla mancanza di documenti - mi sono sentita prendere in giro da un archivista che mi disse più o meno così: “Los pueblos felices como las mujeres felices no tienen historia”, i popoli felici, come le donne felici, non hanno storia...

Quali erano gli effettivi interessi in ballo che portarono i potenti a usare il pugno di ferro? La perdita della ricchezza?

«Nella brughiera milanese il potere “feudale” dei nobili – Visconti, Arconati, Borromeo, Altemps - non è soltanto economico, ma anche di vita e di morte. I terrieri vivono in una condizione che rasenta la schiavitù, in balia della volontà capricciosa del signorotto del paese. In epigrafe al romanzo, nei versi del “Settenario” anonimo, si proclama il diritto di tutti all’uguaglianza in quanto esseri umani: uomo/donna, ricco/povero, nobile/contadino...».

Una spia consegna agli inquisitori Bonaventura ferito: il ruolo di Giuda non manca mai nel corso della storia?

«La fedeltà a un capo, all’interno di una banda, è una necessità vitale; e, finché dura, la rivolta cresce. Ma Oscar Wilde è nel giusto quando afferma che le grandi menti fanno i propri discepoli, però alla fine è sempre Giuda a scriverne la biografia».

Vent’anni dopo, la vagabonda Pùlvara che aveva fatto parte dei rivoltosi, torna sui luoghi della riscossa solo per rivivere un momento eroico o per rileggerne le vicende fermentate nel tempo?

«Pùlvara torna in brughiera spinta da un sogno. In un certo senso torna per cercare se stessa: da una cascina all’altra, fin dentro alla selva dei salici “incantati” dove può ritrovare le ossa e gli oggetti appartenuti a Bonaventura, tenerli tra le mani, leggere nella loro crosta di ruggine o nei loro colori sbiaditi il tempo passato e quindi chiedersi dov’era lei – cosa ha fatto, chi ha amato – in tutti quegli anni in cui il cadavere è rimasto insepolto... Il suo è il dramma di chi sopravvive».

Il gioco di Santa Oca come una sorta di introitus che preannuncia la Storia «casella dopo casella»?

«Nell’immaginazione sovreccitata della camminante Pùlvara tutto ciò che le capita è segno di qualcos’altro. Nel gioco dell’Oca, ogni casella è inserita in un Ciclo presieduto da un pianeta o una stella che ci condiziona e segna la via o ci lancia avvertimenti; ogni numero rappresenta i momenti della vita: il riposo, il pericolo, il cattivo incontro, il labirinto delle scelte, la lotta... È il Gioco della Vita dove il tempo è una ruota: chi vuol correre avanti deve tornare indietro, tutto ciò che ami o di cui hai goduto ti sarà portato via da un momento all’altro e dovrai ricominciare da capo».

Due parole sulla scrittura molto accorta e innovativa sul piano di un innesto tra italiano vecchio e nuovo: risultato eccellente.

«È sempre difficile cercare la lingua giusta quando si fanno parlare personaggi così lontani nel tempo e si racconta una brughiera che non esiste più dopo l’ampliamento dell’aeroporto di Malpensa... Quindi ho scritto un testo in italiano, ma sullo sfondo ho nascosto un’altra lingua, il dialetto della mia infanzia, che ancora mi suggerisce parole e toni che, appartenendo al passato, evocano quel mondo scomparso».