L’intervista a piero dorfles

«Vi svelo la formula segreta di Pinocchio»

L’indagine dell’abile critico letterario su un capolavoro dal successo inesauribile
Pinocchio e Lucignolo in un’illustrazione firmata da Carlo Chiostri nel 1901.
Red. Online
08.01.2019 06:00

Pinocchio l’immortale. Un nuovo saggio si aggiunge agli innumerevoli libri ispirati dal celebre burattino che il genio di Carlo Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini, Firenze 1826–1890) ha creato con la sua fantasia. Ma si tratta solo di fantasia? Una nuova indagine su Pinocchio, «Le palline di zucchero della fata turchina»(Garzanti) condotta da Piero Dorfles, saggista, critico letterario e autore di programmi radiofonici e televisivi, vede nell’opera una rappresentazione dell’umano che Collodi ha voluto genialmente «mascherare» in un contesto favolistico, periglioso anch’esso come la vita. «Pinocchio non è solo un libro per l’infanzia – chiarisce Piero Dorfles -, mentre molti altri lo sono. “Il Piccolo Principe” ad esempio, a dieci anni si guarda già con un po’ di distacco, più avanti persino con un po’ di disgusto dovuta alla melensaggine del testo; ci sono anche dei libri più interessanti di Pinocchio per i contenuti, però di libro che abbia contemporaneamente la capacità di essere di intrattenimento per l’infanzia ma anche di grande insegnamento per gli adulti, e uno strumento di crescita non sono per i piccoli, ma anche per i grandi, privo di riferimenti e allegorie (che sono i grandi temi della vita dell’uomo, non soltanto dei bambini) beh... c’è solo Pinocchio». Al saggio di Piero Dorfles, fa eco la notizia che il regista Matteo Garrone inizierà a breve le riprese di un nuovo film sul burattino. Roberto Benigni (l’attore toscano era già stato Pinocchio in un suo film del 2002), sarà Geppetto. Pinocchio al cinema non è una novità: cominciò Disney nel 1940 con un film di animazione; altro film del genere nel 2012 con le parole di Enzo D’Alò e i disegni del bresciano Lorenzo Mattotti (diventato anche un libro). Memorabile il «Pinocchio» televisivo del 1972 con Nino Manfredi nei panni di Geppetto e il piccolo Andrea Balestrieri in quelli del burattino. Ma pare che anche ad Hollywood stiano pensando di portare sullo schermo il piccolo bugiardo. Non si sa ancora chi sarà Pinocchio, ma per il ruolo di Geppetto è in ballo un attore due volte premio Oscar: Tom Hanks. Sono tutte conferme del successo internazionale di un burattino bugiardo che si propaga da più di un secolo, azionando centinaia di studi tanto da creare il termine «Pinocchiologia», una sorta di contagio collettivo. Ne abbiamo parlato con Piero Dorfles.

Dorfles, la «Pinocchiologia» può essere considerata una specie di scienza?

«Nel corso del tempo Pinocchio ha prodotto una tale quantità di studi e di ricerche che si potrebbe dire è diventato una branca della filologia italiana. In realtà, anche dentro questo schema, la quantità di modalità di studio del fenomeno Pinocchio sono talmente diverse che non rappresentano un unico filone di ricerca. C’è chi ci trova relazioni religiose, chi psicologiche, chi sociali, politiche e storiche: ognuna di queste cose ha una sua visione. Ecco perché la “Pinocchiologia” alla fine non esiste. Ci sono solo molti appassionati di Pinocchio che lo guardano con occhi diversi uno dall’altro».

È vero che Collodi scrisse «Le avventure di Pinocchio» solo perché aveva bisogno di soldi essendo molto indebitato?

«Collodi era una persona molto singolare e lavorava quasi solo se costretto. La sua grande passione che è stata il giornalismo, aveva a che fare con la sua passione politica, ma quasi tutto il resto lo ha fatto per i debiti, perché doveva lavorare per guadagnare. Pinocchio è nato per lo stesso motivo. Collodi non aveva in mente un progetto. Gli hanno chiesto di scrivere un libro per bambini e lui l’ha scritto e ci ha messo dentro quello che era lui: un uomo di potente capacità scrittoria, non solo uno che sapeva scrivere bene, ma sapeva metterci dentro tutta la spinta intellettuale, morale e polemica che gli veniva dalla sua formazione e dal suo modo di essere. Per questo Pinocchio è quasi un’operazione inconscia, nel senso che Collodi non sapeva bene cosa stava scrivendo, ma gli è venuto fuori il capolavoro che conosciamo. Era un uomo poliedrico in grado di scrivere di tante cose e scrivendo su ordinazione per necessità veniva fuori di tutto. La cosa mirabile è questa, perché se si va a leggere le sue prose di cronaca giornalistica e gli altri libri, si scopre che era una penna straordinaria in tutti i campi».

Lei individua nelle avventure di Pinocchio una «rivisitazione mistica»: come la propone l’autore questa sorta di lezione evangelica?

«Non sono io a individuarla: quasi tutti gli osservatori che si sono confrontati con Pinocchio trovano che ci sono dei riferimenti alle Scritture, agli esempi più classici della questione biblica oltreché allegorie di quello che potrebbe essere il conflitto tra Stato e Religione. Io credo che si tratti di coincidenze non volute, perché notoriamente Collodi era deluso dai rapporti delle istituzioni con la Chiesa. Aveva studiato qualche anno in seminario dagli Scolopi, ma aveva nei confronti della chiesa militante un distacco abbastanza evidente. Che poi essendo la sua la cultura italiana molto legata alla tradizione cristiana non potesse non avere riferimenti a questa, mi sembra scontata. Ma non credo che abbia voluto come qualcuno dice, parlando della fatina dai capelli turchini, pensato al mantello della Madonna; non credo che abbia messo a Geppetto una parrucca gialla per farlo assomigliare a San Giuseppe con l’aureola; non credo che quando lui viaggia sul colombo ci sia un’illusione allo Spirito Santo; non credo neanche che la capretta in cui ad un certo momento si trasforma la fatina assomigli all’Agnus Dei. No, penso che siano dei riferimenti iconografici necessari in tutte le fiabe sempre piene di allegorie. Sullo sfondo di un libro italiano, la cultura cattolica non può che filtrare, ma non era questo che voleva Collodi. Lui voleva scrivere un libro dell’Italia unita e dello Stato Pontificio e quindi un libro che andasse incontro a un nuovo modello di pedagogia laica e non confessionale come quella che lo Stato sabaudo stava faticosamente inaugurando nel Paese».

Per Pinocchio la bugia è una forma di difesa o di furbizia sopraffina?

«Credo che questa cosa sia andata molto al di là delle intenzioni di Collodi che ha inventato l’idea del naso che si allunga con le bugie, ma ha allo stesso tempo disseminato il testo di tante menzogne dette dagli adulti, per cui pensare che sia Pinocchio il vero mentitore è una forzatura. Collodi racconta qualcosa che ha a che fare con la necessità di mentire degli adulti per non offendere il prossimo o per evitare conflitti; Pinocchio essendo un bambino e non avendo la dimensione dell’ipocrisia sociale, mente più per spudoratezza e per nascondersi dietro qualcosa che gli eviti una punizione. Ma Pinocchio mente soltanto per necessità, mentre gli adulti mentono con intenzione e qui sta la differenza. E agli adulti non cresce il naso. Quando crescerà mentirà anche lui per motivi sociali come fanno gli adulti».

Come sopravvive Pinocchio nello spirito di tutti gli uomini? Ma soprattutto, quant’è attuale oggi il suo comportamento?

«È drammaticamente attuale perché in Pinocchio noi troviamo una serie di archetipi del comportamento umano che si riferiscono in particolare a quelle che sono le condizioni italiane; archetipi che valgono in ogni angolo dell’universo, tanto è vero che Pinocchio è un libro fra i più venduti in tutto il mondo, e rimangono molto significative anche le sue accuse nei confronti delle istituzioni che vengono criticate dall’autore tramite i pensieri dei protagonisti. L’emblematico personaggio che manda Pinocchio in prigione perché è stato derubato è un giudice sornione e Collodi rappresenta in questo modo la giustizia non soltanto perché chi l’amministra alle volte lo fa in modo scimmiesco e che quello scimmione per darsi importanza a volte indossa occhiali senza lenti, per dire che si attribuisce una autorevolezza che in realtà è soltanto apparenza. Se c’è questo distacco tra cittadini e istituzioni così come c’è una certa vergogna in chi è in difficoltà sociali, vuol dire che il senso della collettività è superato dagli interessi personali. Io credo che in questo Collodi fosse socialmente molto impegnato perché era un uomo consapevole delle contraddizioni non solo del suo tempo, ma di quelle che da sempre contraddistinguono l’associazione degli uomini sulla terra».

Come si può spiegare la fortuna di Pinocchio?

«Pinocchio è immortale, perché - come lo stesso Collodi finisce per farci capire -, vive ancora prima di nascere in quanto rappresenta qualcosa di eterno che è in noi e per forza di cose sopravvive al tempo, ai cambiamenti e al nostro modo di vedere le cose. Pinocchio è il genere umano nella sua dimensione infantile ma anche nella sua preparazione allo sviluppo. Se c’è qualcosa che subito salta agli occhi è il fatto che Pinocchio rappresenta il modo in cui tutti noi crediamo di essere adulti. Cresciamo lentamente, ci trasformiamo da bambini assolutamente sprovvisti di senso etico in persone che devono affrontare la vita con moralità: questo riguarda ognuno di noi singolarmente e il genere umano in quanto tale che nasce in una condizione brutale di inconsapevolezza fino ad acquisire coscienza di sé e diventare animale sociale. Pinocchio è la straordinaria allegoria di cos’è lo sviluppo dell’uomo nel suo insieme: Pinocchio è la storia dell’uomo e pertanto è ineliminabile».

Qual è la mano fatata che può porgerci le palline di zucchero per correggere l’amaro di un momento storico difficile per chiunque direi?

«Pinocchio insegna che si esce dal disagio, dalla marginalità e dalla povertà imparando a leggere e scrivere. Pinocchio fa una grande fatica nel corso della sua vita ad acquisire degli strumenti culturali, ma lo fa perché senza quelli non diventerebbe il bravo bambino che è. Noi siamo una popolazione che oggi ha sviluppato un’enorme competenza tecnica e uno sviluppo economico in grado di poter affrontare tutte le sfide della contemporaneità. Ma ciò che ci manca di più è la cultura e la capacità di vivere dentro i libri, dentro la lettura, dentro le grandi storie del passato: tutto questo è l’unica cosa che ci può salvare dal grigiore che qualche volta il nostro destino sembra proporci».