Fotografia

Viaggio nel mondo segreto di René Burri

Nel catalogo della mostra (ormai chiusa) «L’explosion du regard» al Musée de l’Elysée di Losanna
René Burri, «El Che», riproduzione dipinta,15 x 20 cm, 2005 ca. © Rene Burri/Magnum Photos/Fondation René Burri/ courtesy Musée de l’Elyse/ProLitteris Zurigo
Antonio Mariotti
21.03.2020 06:00

Chi usa l’agendina elettronica in questi giorni sarà spesso bombardato da avvisi di appuntamenti forzatamente annullati a causa dell’emergenza legata al coronavirus che stiamo vivendo. Oggi nella mia agenda era ad esempio prevista la visita alla mostra «René Burri - L’explosion du regard» che il Musée de l’Elysée di Losanna avrebbe dovuto ospitare fino al prossimo 3 maggio e che molto probabilmente non riaprirà i battenti. Un’occasione imperdibile per gli appassionati di fotografia, visto che l’esposizione presentava per la prima volta una serie di materiali inediti provenienti dall’archivio personale del grande fotoreporter svizzero che, pochi mesi prime della morte, avvenuta nel 2014, aveva creato una fondazione che porta il suo nome e aveva deciso di lasciare tutta la sua opera all’istituzione romanda, frequentato spesso da Burri sin dalla sua fondazione nel 1985. La chiusura prematura della mostra rende impossibile una recensione vera e propria ma, anche se l’Elysée non ha finora messo in rete una visita virtuale dell’esposizione, grazie al bel catalogo (pubblicato da Les Editions Noir sur Blanc e in vendita al prezzo di 49 franchi) e alle interviste presenti sul sito www.elysee.ch è possibile farsi un’idea di questa operazione che rende un omaggio inedito a un personaggio che si rivela ben più di un «semplice» fotografo.

Undici capitoli per una vita

Chi si aspetta una sorta di «best of» dell’opera di Burri rimarrà, almeno a prima vista, deluso poiché sia il catalogo sia l’esposizione (curati da Mélanie Betrisey e Marc Donnadieu) ci offrono una panoramica suddivisa in undici capitoli che prende in considerazione anche il Burri disegnatore, il suo rapporto con il cinema, la fabbricazione dei suoi libri (di cui egli stesso curava spesso le maquette) e il contenuto delle centinaia di quaderni di schizzi ed acquerelli che hanno sempre accompagnato il fotografo nel corso dei suoi viaggi intorno al mondo. A tratti si può avere l’impressione che i curatori si siano fatti «accecare» dall’enorme massa di documenti che il fotografo ha depositato a Losanna, ma è chiaro che il loro intento non è quello di allestire l’ennesima retrospettiva sull’opera di uno dei fotoreporter che hanno maggiormente segnato la seconda metà del XX secolo grazie in particolare alla sua capacità di raccontare la nostra società attraverso una serie di indimenticabili icone: su tutte il celebre ritratto di Ernesto «Che» Guevara con il sigaro in bocca scattato all’Avana nel 1963 Il loro proposito è invece quello di fare un passo in più: un passo forse per certi versi ancora incerto e non definitivo ma sicuramente coraggioso, poiché punta a mettere in relazione la vita e l’opera di un artista dando vita a quell’«esplosione dello sguardo» citata nel titolo.

Artista vulcanico e generoso

Come raccontano le testimonianze di suoi amici e collaboratori che si trovano nel catalogo e sul sito del museo (e come ci conferma anche il fotografo ticinese Marco D’Anna nell’intervista qui sotto) una delle caratteristiche di René Burri era proprio quella di non fare alcuna differenza tra arte e vita. Burri viveva e lavorava 24 ore al giorno e non era facile stargli appresso, ma questo suo modo di intendere l’esistenza ne faceva anche una persona estremamente disponibile e generosa.

Burri ci appare così come un personaggio vulcanico ma mai dispersivo. Al contrario, al centro delle sue immagini c’è sempre l’Altro: il soggetto fotografato ma anche colui che questa immagine la scoprirà su una rivista, su un libro o in una mostra. Come scrive nel catalogo Marc Donnadieu: «Da un certo punto di vista quel che trasmette Burri attraverso le sue fotografie è il dono di un viso, il dono di uno sguardo, in modo che l’altro si guardi a sua volta in maniera più giusta, più intensa e più vibrante». È da questa vibrazione che nasce l’esplosione, da un modo più «umanistico» di concepire la fotografia che appartiene forse di più ai fotografi che hanno vissuto l’epoca d’oro del reportage che non a quelli di oggi. E la mostra (o meglio il catalogo) losannese non fa altro che ricordarcene l’importanza. Grazie René!

D’Anna: «Macchina al collo per seguire l’ordine di Cartier-Bresson»

René Burri e Marco d’Anna al Festival di Locarno del 2011.
René Burri e Marco d’Anna al Festival di Locarno del 2011.

Marco D’Anna, lei in che occasione ha conosciuto René Burri?

«L’ho incontrato per la prima volta nel 1997 a Chiasso nell’ambito di un workshop organizzato dalla galleria Cons Arc. Vi ho partecipato perché evidentemente Burri era uno dei miei punti di riferimento fotografici e da questo primo incontro è nata un’amicizia che è poi proseguita fino alla sua scomparsa nel 2014. Negli anni successivi ci siamo frequentati molto, anche perché nel 2012 ho abitato per un anno a Parigi ed ero spesso ospite a casa sua».

René Burri era davvero una persona molto generosa come testimoniano in molti nel catalogo della mostra losannese?

«Sì, assolutamente, era una persona di una grande disponibilità. Mi ricordo ad esempio al Festival di Locarno, dove era molto sollecitato da giovani e giovanissimi fotografi. Abbiamo partecipato a cene con una decina di loro e per Burri non faceva alcuna differenza cenare con grandi artisti o con giovani che lo bombardavano di domande, mostrava la stessa generosità nelle due situazioni. Era curioso e, come tutti i grandi, per nulla altezzoso, anche se la sua disponibilità non era ovviamente senza limiti. Ai giovani amava in particolare raccontare i tanti aneddoti legati al suo lavoro di fotoreporter».

Una delle sue caratteristiche era quella di avere sempre il suo apparecchio fotografico al collo: la fotografia era parte della sua vita quotidiana?

«Certo, ricordo che una volta mi ha raccontato che tornando da un suo viaggio, alla stazione di Parigi ha trovato Henri Cartier-Bresson (cofondatore di Magnum Photos: ndr) ad accoglierlo che ha subito controllato se sotto la giacca portasse la macchina fotografica. Lui in quel caso non ce l’avevo e Cartier-Bresson lo ha rimproverato dicendogli che bisognava sempre averla pronta. Un episodio che deve averlo segnato perché io l’ho sempre visto con l’apparecchio al collo».

Avete collaborato per il film e la mostra Projet Corrida, com’è nata quest’idea?

«Abbiamo passato una settimana al mare in Andalusia con le nostre famiglie. Io avevo appena finito un lavoro sulla corrida a Siviglia e lui mi ha detto che 50 anni prima aveva fatto la stessa cosa con la fotografia e con un film rimasto inedito. Allora ci è parso naturale abbinare i nostri lavori che sono stati presentati in prima mondiale al Festival di Locasrno del 2011. E non è stato il frutto del caso, per Burri il caso non esisteva, c’era sempre un motivo dietro a tutto».

Questa situazione sta incidendo anche sul suo lavoro?

«Sì, proprio in questi giorni avrei dovuto inaugurare a Lugano una mostra sulle materie prime in Russia ma tutto è rinviato all’autunno».

Minibiografia di un creatore di icone

René Burri nasce a Zurigo il 9 aprile 1933. Prima della fotografia le sue passioni sono la pittura e il cinema e per tale motivo decide di frequentare la scuola d’arte di Zurigo dove studia pittura e disegno e si specializza in fotografia. Finita la scuola cerca di dare seguito a questa passione nel mondo del cinema, ma le opportunità date dalla Svizzera in quel periodo sono limitate e decide quindi di dedicarsi alla fotografia. Nel 1955 comincia a collaborare con l’agenzia Magnum Photos, di cui diventa membro nel 1959, iniziando un’intensa attività come fotoreporter in giro per il mondo. Le sue immagini, spesso delle icone, vengono pubblicate dalle più prestigiose riviste internazionali, dagli anni ’60 pubblica numerosi libri e tiene mostre nei più importanti musei. Muore a Zurigo il 20 ottobre 2014.