L'approfondimento

Visitare un museo per migliorare il nostro stato mentale: funziona?

La museoterapia è stata varata a Neuchâtel dallo scorso 3 febbraio: non si tratta di una prima, né a livello nazionale né tantomeno mondiale – Cerchiamo di capirne di più
Sara Fantoni
08.03.2025 19:15

«Non è necessario bruciare i libri per distruggere una cultura. Basta che la gente smetta di leggerli». Una citazione d’impatto dello scrittore e sceneggiatore statunitense Ray Bradbury, vincitore del Premio Pulitzer 2007 in encomi speciali e riconoscimenti. Questa breve affermazione implica innanzitutto che una cultura – intesa come il retroscena spirituale, materiale, intellettuale ed emozionale di una società o di un gruppo sociale – sia sostenuta dai libri e che tramite la conoscenza di questi si possa avere accesso a ciò che caratterizza un popolo. Discutibile o meno, questa frase è però anche un avvertimento. «Facciamo attenzione – sembrerebbe dire – perché limitare la libertà di stampa e l’accesso alla letteratura non è essenziale per provocare una perdita della cultura. È pericolosamente più semplice di così». Bradbury afferma qualcosa di molto potente dunque: non serve la forza per appiattire e far scomparire una cultura. Per raggiungere questo obiettivo, basta far calare l’interesse per essa; non è necessario renderla un ‘frutto proibito’.

Basterebbe forse questo ammonimento dello scrittore per farci comprendere l’importanza della lettura e della cultura oggi. Ma cerchiamo di capire meglio a cosa possono realmente servire i libri, l’arte, la cultura e lo studio di questi.

Museoterapia: l’impatto fisiologico dell’arte

Da venerdì 3 febbraio, i medici generici della città di Neuchâtel possono prescrivere delle visite museali per migliorare lo stato mentale e psichico dei loro pazienti. Non si tratta di una prima né a livello nazionale, né tantomeno a livello mondiale. Ginevra e Losanna hanno anche loro sperimentato la museoterapia, ma questo concetto si è sviluppato in Canada già nel 2018, quando i medici hanno iniziato a prescrivere ingressi al Museo delle Belle Arti di Montréal. Dal 2022 anche Bruxelles comincia a proporre questa strada come ‘mezzo supplementare’ di accompagnamento alla psicoterapia per prendersi cura della propria salute mentale.  

Cosa c’è di scientifico in tutto ciò? «I primi esperimenti risalgono agli anni ‘80 e ‘90, soprattutto nel mondo anglosassone – spiega a radiofrance Leslie Labbé, autrice di una tesi sulla museoterapia –. Il primo libro che apre il campo della ricerca sui legami tra musei e salute risale al 2013».  

Esistono dunque degli studi più o meno recenti in questo campo, ma è nel 2019 che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dimostra che l’arte può effettivamente aiutare a curare le malattie mentali. «Gli studi provano che ci sono effetti diretti sul nostro cervello – prosegue Labbé –. Attiva i circuiti di ricompensa che ci fanno provare emozioni positive. È fisiologico».

La ricercatrice prevede dunque una collaborazione a più livelli: il piano medico, quello artistico e museale, ma non solo: «Gli architetti si stanno interessando alla creazione di un’architettura ‘positiva per la salute’, con certe texture, determinate luci, con aperture in precisi punti e così via» aggiunge Labbé mettendo l’accento sull’importanza di una collaborazione interdisciplinare.

I due occhi per capire il mondo: scienze sul mondo e scienze umane

L’interdisciplinarità è un concetto al quale tende anche il filosofo americano del 20esimo secolo Wilfrid Sellars, proponendo nel suo articolo «Philosophy and the Scientific Image of Man» una concezione stereoscopica dell’uomo nel mondo, ovvero di com’è e cos’è l’essere umano nell’ambiente in cui si è sviluppato e vive. Cosa significa? In termini ottici, il fenomeno stereoscopico rappresenta la capacità del cervello ad unire le immagini prodotte dai singoli occhi da due angolazioni distinte, creando così la percezione di profondità visiva. Metaforicamente, allo stesso modo, l’unione di due prospettive distinte – quella scientifica e quella umanistica e sociale (semplificando) –, ci permetterebbero di avere una visione completa, profonda e tridimensionale della realtà – o, in termini sellarsiani, della realtà dell’uomo nel mondo. Senza entrare troppo nel tecnico, per l’autore una visione chiara e completa della realtà in cui viviamo è data dall’unione e dal dialogo fra scienze sul mondo e scienze sull’uomo.

Ma concretamente, è davvero questo ciò di cui la nostra società ha bisogno?

Guardando alcuni dati, è evidente come i settori accademici interdisciplinari e quelli appartenenti alle scienze umane e sociali siano i rami che hanno più difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro dopo un anno dal diploma a livello di master.

Perciò no: concretamente la nostra società non sembrerebbe avere una necessità imminente di molte persone che permettano una visione tridimensionale dell’uomo nel mondo. Ma allora, che senso – o che utilità, visto che ci piace tanto questa parola – hanno queste discipline, in particolare, quelle legate alle scienze umane?

Se sentire la vita è utile

A questo proposito, durante un dialogo pubblico nel 2015 con la scrittrice iraniana naturalizzata americana Azar Nafisi, è stata evidenziata la necessità, oltre che l’importanza, degli studi umanistici, andando oltre la loro utilità apparente e valorizzando invece la bellezza, l’empatia e la comprensione che derivano dallo studio e dal confronto con la letteratura e, più in generale, con le facoltà umanistiche.

Nel suo libro La Repubblica dell’Immaginazione edito Adelphi, la scrittrice afferma infatti che «Gli studenti di oggi non sono solo i lavoratori di domani». Con questa frase, l’autrice desidera ridare dignità agli studenti in quanto tali, ma anche allo studio fine a sé stesso – ben diverso, attenzione, dalla pigrizia nel voler cercare di ottenere un impiego – come lotta e resistenza contro l’ammonimento di Ray Bradbury, ovvero contro il pericolo di «smettere di leggere».

Scrive Nafisi in Leggere pericolosamente, in riferimento all’incarcerazione e alla successiva esecuzione di una sua allieva in Iran: «Il fatto è che, davanti ad atti di violenza e disumanità così estremi e alla prospettiva di perdere ogni speranza nella natura umana, […] ci affidiamo all’empatia e alla fiducia che, grazie ai libri, all’arte, alla musica, grazie a quanto è stato creato dall’amore, dalla passione, dal desiderio di comunicare, dal bisogno di resistere alla morte e all’oblio, persino in quei luoghi tanto prossimi all’annichilimento siamo vicini anche alla vita». Oltre all’utilità fisiologica, come nel caso della museoterapia riemersa in queste settimane, esiste dunque un’utilità umana viscerale, secondo la scrittrice, che in una società può e deve coesistere con l’utilità materiale.