Pugilato

«A 10 anni di distanza pagherei per avere un’altra chance»

Il 26 novembre del 2010 a Bolton si spezzò il sogno europeo di Ruby Belge: «Non riesco a togliermi dalla testa quel match contro Matthew Hatton. Vale più di tutte le vittorie»
©Ti-Press/Gabriele Putzu
Massimo Solari
26.11.2020 06:00

Il guantone sinistro di Matthew Hatton che scava nel corpo, a pochi centimetri dal fegato. Il dolore è lancinante. Un ginocchio a terra, poi l’altro. Ancora qualche secondo. Infine, la resa. Sono trascorsi esattamente 10 anni dal match e dal pugno che spezzarono il sogno europeo di Ruby Belge. L’ex pugile rivive per noi l’amara e indimenticabile notte di Bolton.

«Ci penso spesso. È l’incontro a cui tengo maggiormente. Quello che non riesco a togliermi dalla testa. Vale più di tutte le vittorie». Ruby Belge, da combattente autentico quale è stato, non abbassa lo sguardo. E affronta il passato a testa alta. Nonostante quel 26 novembre del 2010 bastarono tre riprese - e un sinistro chirurgico - per andare al tappeto. Troppo forte Matthew Hatton, più del coraggio, dell’ambizione e dei sogni di un 31.enne venuto grande a pane e palestre nel piccolo Ticino. «Pagherei oro per poter avere un’altra chance» ci confida. «Anche adesso. Quando vieni battuto in maniera così netta, a prevalere è l’amaro in bocca. Qualcosa brucia, sì, nonostante mi capiti di raccontare il contrario. In fondo è come perdere la finale di Champions League: vorresti avere la possibilità di rigiocartela subito. Ma lo sport non funziona così».

«Quella serie di colpi l’adoravo»

Dieci anni dopo, quale sentimento prevale, dunque? «La delusione - spiega Belge - ha accompagnato soprattutto i primi anni dopo il match. Ora, con il necessario distacco, guardo a quei traguardi con grande orgoglio. Emerge anche la consapevolezza, circa l’avversario: Hatton, sul ring, era molto di più del sottoscritto. Sotto tanti punti di vista». Una superiorità racchiusa nel colpo del k.o., dopo un minuto e trentadue secondi del terzo round. «Paradossalmente Hatton mi sdraiò sfruttando la sequenza di colpi che preferivo» sottolinea Ruby: «Un’azione che ho sempre adorato e a conti fatti rivelatasi fatale nell’incontro più importante della mia carriera». Già, e che palcoscenico, con i riflettori accesi sul futuro campione europeo dei pesi welter. Belge, all’epoca, riuscì a rendersi conto del contesto? «Faccio un altro parallelismo. È come recitare in un film, con scene provate e riprovate, sino al risultato finale. Al momento non ti godi quasi nulla. Ma è più tardi, con la giusta calma e lucidità, che arriva il piacere. E la reale comprensione di quanto fatto». La risposta, tornando alla domanda, è insomma negativa. «Proprio così: allora non fui in grado di gustarmi l’evento. Penso alla conferenza stampa pre-match, ai giorni a Bolton, agli amici presenti. La tensione era troppa. Mi giocavo tutto, sapendo però di essere tutto fuorché favorito».

Quante difficoltà

L’occasionissima del Reebok Stadium, in effetti, si presentò in un momento complicatissimo per Ruby. «Michele Barra, mio manager all’epoca, mi aveva proposto il Mondiale WBA in Senegal. Il sogno di chiunque. Il contratto era pronto. Prima, tuttavia, era già arrivata la firma sulla sfida contro Hatton. Per la quale, sia chiaro, ero altrettanto gasato. Ai tempi mi allenavo con Gianluca Branco, che aveva appena perso proprio contro Matthew e quindi mi aveva fornito alcune dritte. Poi, certo, psico-fisicamente non ero al 100%». Appunto, per quale motivo? «Da un lato i diversi problemi fisici, dall’altro il cambio d’allenatore, con il ritorno da Federico Beresini dopo la parentesi con Patrizio Oliva. Questo riabbracciare il passato, inutile negarlo, è stato un fattore che incise. Ma, minestra riscaldata o meno, non m’importava. L’impegno era preso, la sfida accettata. Di più: quando un pugile sale sul ring è per vincere. E io ero convinto di potercela fare». Anche perché la borsa in palio era di quelle importanti. «Aggiudicarsela - ammette Belge - ci avrebbe catapultato in un’altra dimensione. Senza quel successo, economicamente parlando, io e il mio team avremmo invece continuato a sopravvivere».

La tensione era troppa. Mi giocavo tutto, sapendo però di essere tutto fuorché favorito

Un peso sospetto

Tutto, dicevamo, giocava contro il pugile ticinese. Oltretutto nella tana dell’avversario. Per dire: Belge fu fatto salire sul ring con largo anticipo, il tempo necessario per farsi bersagliare dal pubblico inglese e per assorbire una certa dose di pressione. «Potrei andare avanti per mezz’ora con tutta una serie di aneddoti e aspetti poco chiari legati alla notte di Bolton. Dalle valigie arrivate in ritardo, alla mole del mio avversario: dieci chili in più di me, che si vedevano tutti, ma che la bilancia che aveva pesato entrambi stranamente non rilevò». Ruby, tuttavia, non cerca scuse: «Quando perdi, nella vita, devi solo stare zitto. Hatton sul ring è stato semplicemente più bravo di me. Fisicamente e sul piano pugilistico». Detto ciò, ammette Belge, il match non si decise unicamente sul ring. «La verità, e me ne rammarico ancora oggi, è che eravamo un po’ dei pivellini. L’entourage di Hatton conosceva tutto di me: quanti sinistri avrei tirato al primo round, quanti al secondo. Avevano studiato tutti i miei incontri. E infatti pagai a caro prezzo i miei errori. Io, al contrario, sapevo poco o nulla di Matthew. Non c’era una strategia. Questo per dire la differenza di livello tra i due team». Eppure solo sei mesi prima, in occasione del mondiale IBC contro il bielorusso Andrei Abramenko, Ruby aveva difeso il titolo con una generosità pazzesca. Rialzandosi sempre, soprattutto in una drammatica quarta ripresa. «Ma Hatton - rispetto ad Abramenko - aveva 10 chili più di me. E con questo scarto, il pugno lo senti. Per tacere della bravura tecnica. Contro Abramenko la difficoltà derivava dall’occhio che mi si gonfiò già alla prima ripresa. Detto altrimenti, andai in difficoltà anche perché combattevo con un occhio solo. Se ripenso al nostro livello, comunque, ai tempi ero più forte di lui. Quel match, l’ultimo con Oliva, lo affrontai al top della forma. Al netto del rapporto per certi versi conflittuale con Patrizio e di alcuni problemi accusati nelle settimane precedenti l’evento del Conza: non mettevo i guantoni da settimane per il dolore alle mani».

«Sapevo che era la fine»

Il pareggio in rimonta contro Abramenko, il «knock-out» di Bolton. E un 2010 indimenticabile. Inimitabile, anche. Il ritiro di Ruby Belge, non a caso, arrivò due anni dopo: «Ma ancor prima di affrontare Hatton sapevo, sentivo di aver già raggiunto l’apice. E quindi, di riflesso, di aver intrapreso la via del declino. La sconfitta ha fatto il resto. Di fatto non avevo più margini di crescita». Il segno, però, era stato lasciato. «I fatti parlano per me» conferma Ruby: «Cinque titoli svizzeri da dilettante in Ticino, non li ha vinti nessuno. Un titolo mondiale difeso tre volte, l’Europeo dei pesi welter a fronte di una concorrenza elevatissima». A mancare, a oggi, è per contro un erede. «Per diverse ragioni: il pugile, l’allenatore, il manager. La loro alchimia è fondamentale e nel mio caso funzionò fino a un certo livello. Una simile costellazione non si è tuttavia riproposta. Vedo tanti pugili più forti di me sul piano tecnico, ma ai quali mancano gli occhi della tigre che mi caratterizzavano. Non ero un fenomeno, dove si fermavano gli altri però io perseveravo». Tanto da meritarsi una notte indimenticabile a Bolton.