Ajla sorride di nuovo: «Il 2022 è stato complicato, ma ora sono serena»

Il cuore dell’atletica, in questi giorni, batte a Istanbul. Quello di Ajla Del Ponte segue altri ritmi. Non per forza meno importanti e sinceri. «La riabilitazione sta andando alla grande» ci racconta al telefono. «Per una decina di giorni sarò in Ticino, poi - a fine mese - spero di poter riprendere gli allenamenti in gruppo in Sudafrica». È l’inizio di una lunga chiacchierata.
Ajla, ti ha sorpreso di più vedere il tuo amico Noè Ponti su uno dei carri che hanno sfilato il Rabadan o l’Ambrì escluso dai pre-playoff?
«In realtà non ho particolari problemi a immaginarmi Noè sfilare per le vie di Bellinzona a carnevale (ride, ndr). Fa parte del suo personaggio. Del suo essere gioioso. Sono per contro dispiaciuta per la vacanza anticipata dell’Ambrì. Alla Spengler, a fine dicembre, ho avuto l’opportunità di vivere bellissime emozioni. Il clou, se vogliamo, di una stagione poi rivelatasi viepiù sofferta. Peccato».
«Mi sento molto serena». Nella tua ultima newsletter, nubi e pioggia sembrano aver definitivamente lasciato il posto a caldi raggi di sole. È così?
«Ho interrotto in anticipo l’ultima stagione. E, in accordo con il mio coach Laurent Meuwly, abbiamo deciso di non fissare una data per la ripresa degli allenamenti. Per preservare la mia salute mentale. La pausa è durata quasi 8 settimane. La più lunga della mia carriera. Al rientro ero pronta e serena. Purtroppo, però, sono riemersi i problemi alla tibia, con gli esami che hanno portato alla luce una triplice frattura da stress. Quelle settimane di novembre sono state complicate: il team medico, in Svizzera, non era convinto di procedere a livello chirurgico. Nei Paesi Bassi la disponibilità è invece stata totale. Una volta decisa l’operazione, quindi, le ultime nubi si sono diradate. Ho vissuto l’intervento con tranquillità, nonostante fosse una prima per me. Da lì il processo di riabilitazione è stato graduale: camminare, fare le scale, vivere giorno per giorno insomma, sino al ritorno alla corsa. La fase forse più semplice degli ultimi mesi».
Con quali sentimenti, dunque, la campionessa in carica ha guardato la finale dei 60 m agli Europei indoor di Istanbul?
«Sempre con grande serenità e curiosità. Se avessi gareggiato in Turchia, per esempio, non mi sarei potuta permettere di raggiungere mia nonna negliStati Uniti per riaccompagnarla in Ticino. Questo per dire che il mio stato d’animo attuale è dettato anche dal tempo che mi è possibile dedicare alla famiglia. Ad altro, come una persona “normale”. Momenti preziosi che mi danno la forza di affrontare i futuri impegni sportivi. Tornando alla finale dei 60 m, ripeto, non ho avvertito alcun mal di pancia, solo tanto interesse. Per Mujinga Kambundji e le altre svizzere in particolare. Tra l’altro,European Athletichs ha deciso di stampare il pettorale giallo con il mio nome. Mi ha fatto molto piacere. È un’attenzione che apprezzo, anche se purtroppo non è stato possibile difendere il titolo».
Come prosegue la riabilitazione dopo l’operazione alla tibia?
«L’importante, in questa fase, è continuare a mettere pressione sull’osso. Così da favorire ulteriormente la guarigione. La riabilitazione procede in modo ottimale e più spedito del previsto. Solo il tendine del ginocchio, ultimamente, mi ha creato alcuni fastidi. Ma se deciderà di essere gentile con la sottoscritta, entro la fine del mese potrò allenarmi in gruppo nell’ambito del ritiro in Sudafrica».


Nell’aggiornare i tuoi sostenitori, hai parlato di un lavoro prezioso sui dettagli. Di cosa si tratta?
«Gli esercizi giornalieri di fisioterapia mi hanno permesso di rafforzare tronco e glutei, così come di stabilizzare le anche. Progressi che percepisco chiaramente. Sì, da un punto di vista tecnico mi sento migliore. Nella speranza, va da sé, che il tutto possa riflettersi in pista quando sarà il momento».
Cosa manca per tornare a sentirti un’atleta al 100% e per migliorare sensibilmente quello che scherzosamente hai definito il tuo «best» stagionale sui 100 m di 17’’20?
«Ti correggo. In due settimane sono già passata a 14’’60 (ride, ndr). Perciò affermavo che il recupero sta conoscendo tempi molto veloci. Tutti sono stupiti. Per rispondere alla domanda, attendo con trepidazione di rimettere ai piedi le scarpette chiodate. Credo che il momento chiave, per sentirmi atleta, sarà questo. Quando potrò allenare pienamente la velocità».
Da un punto di vista mentale, è stato più difficile gestire l’interruzione anticipata della stagione o l’estate, avara di risultati?
«L’estate, senza dubbio. Non volevo accettare la situazione e le differenti performance rispetto alla stagione precedente. Per certi versi mi sono illusa. Nelle gambe sentivo di poter correre veloce. E invece no, il mio corpo non poteva garantirmi determinati crono. Solo che non lo sapevo. Non sapevamo ancora della triplice frattura alla tibia. L’inconsapevolezza e il mancato controllo dei movimenti è quindi stato difficile da digerire».
In una recente intervista, il tuo allenatore Laurent Meuwly sottolineava la tua intelligenza e – di riflesso – la tendenza a essere molto cerebrale. «A volte – ha affermato - può essere un fattore limitante». In che misura?
«Analizzo tutto. Tutte le sensazioni. Il che, se penso al periodo pandemico, può essere positivo, in quanto mi permette di sapere con esattezza - senza doverlo verificare - cosa sto facendo. Al contempo, spesso mi sento dire dagli allenatori che penso troppo. Vorrebbero vedermi eseguire gli esercizi senza filtri: il rischio, in effetti, è di provare frustrazione e negatività in caso di riscontri non immediati. Questo perfezionismo portato all’estremo, quando le cose non vanno così bene, può complicare la mia gestione. Ne sono cosciente».


Meuwly ha pure dichiarato che, di base, i tecnici preferiscono lavorare con atleti maschi. «Uno sprinter chiede al suo coach di farlo correre veloce da A a B. Una sprinter avrà bisogna di trovare un senso a quello che fa». È una riflessione che sposi?
«Se non capisco il senso di un esercizio, sia esso in pista o in sala pesi, effettivamente lo faccio controvoglia. Non per tutte è così, ma senz’altro per molte. Su questo piano, fortunatamente, Meuwly svolge un grande lavoro. E a dimostrarlo è il successo ottenuto nei Paesi Bassi con diverse atlete».
Torniamo alla tua newsletter. «Da mesi non ero così felice» hai scritto. Nel 2022 ti è mancato soprattutto essere felice?
«Nel 2022 sono accadute tante cose. E non di tutte, tra l’altro, ho voluto parlare apertamente. A livello di studi, mi sono resa conto che non era possibile dedicarmi come desiderato all’appendice della mia carriera universitaria. Ho quindi deciso di mettere in stand-by questa parte della mia vita. Una componente che mi manca tutti i giorni, ma per la quale - anche sul piano della salute mentale - serviva una scelta forte. In quel momento figuravo tra le migliori 10 sprinter al mondo: l’unica che studiava. Da un lato volevo darmi la possibilità di restare al vertice, dall’altro non amo fare le cose a metà e quindi non mi andava di svolgere una tesi di Master approssimativa. Per quasi 6 mesi questo conflitto ha occupato i miei pensieri. E poi, poi è venuto a mancare mio nonno. Diverse questioni extra-sportive, dunque, che hanno inevitabilmente avuto dei risvolti in pista. Siamo tutti umani e, presto o tardi, i momenti complicati presentano il conto alle nostre esistenze. Io, se vogliamo, di conti ne ho dovuti pagare diversi nel 2022. Anche se poi, bisogna saper relativizzare. Ad esempio, non posso nemmeno immaginare la realtà di atlete - e ne conosco un paio - con la famiglia in Ucraina e magari un fratello al fronte».
I prossimi mesi sembrano una promessa. Come collocare, in questa visione positiva, i Mondiali di Budapest in programma ad agosto?
«Da un lato vorrei subito inserire l’appuntamento in agenda. È una scadenza che mi frulla per la testa. Dall’altro devo essere anche oggettiva. E quindi accettare che, rispetto alle mie avversarie, non ho ancora potuto svolgere un singolo allenamento di velocità. Loro sono al top, alle prese con gli Europei indoor o con la fine della stagione al chiuso. Di fronte a me, al contrario, la strada è molto lunga. Il mio “best” stagionale, dicevo, è di 14’’60. Non ci siamo ancora. Quando parlo di Budapest, non a caso, i miei allenatori m’invitano alla calma. Di pazienza ne ho poca, ma ho dovuto imparare ad allenare anche quella. Chissà, magari ci sarà una bella sorpresa ai Campionati svizzeri in agenda a Bellinzona a fine luglio. Sì, forse sarà un primo evento importante durante il quale sarebbe bello godere del sostegno dei ticinesi».


Nelle tue stories su Instagram, lungo la parete che costeggia le corsie indoor a Pependal si legge a caratteri cubitali «ROAD TO PARIS». Il grande obiettivo di Ajla Del Ponte sono le Olimpiadi del 2024?
«Sicuramente. Parigi, a differenza di Budapest, suscita riflessioni più razionali. È per questa importante manifestazione che abbiamo deciso di sottoporre la mia tibia a un intervento chirurgico. E di farlo in dicembre. Procedere in questo senso dovrebbe darmi il tempo necessario per recuperare e preparare al meglio le Olimpiadi del 2024. Tutto è finalizzato a Parigi».
A proposito dei Giochi parigini: hai sempre mostrato grande sensibilità sui temi sociali che – inevitabilmente – s’intrecciano con lo sport. Si discute molto della riammissione degli atleti russi e bielorussi sotto bandiera neutra. Saresti d’accordo e, più in generale, come vivi da avversaria ma anche sportiva, questa delicata controversia?
«È un tema delicato per tanti motivi. Non dimentichiamo che, a partire dal 2015, la Russia ha già dovuto fare i conti con un grave problema di doping. Nel mondo dell’atletica, chi è stato reintegrato sotto bandiera neutra ha dovuto sottoporsi ai severi controlli della concorrenza. I nostri controlli, per intenderci. Una condizione che reputo fondamentale in caso di riammissione a Parigi 2024. Per quanto concerne la guerra, avere una posizione netta è difficile. E non spetta a me prendere una decisione in questo senso. Nel gruppo in cui mi alleno è presente un’atleta ucraina. Per lei, così come per molte connazionali, è quasi incomprensibile il mancato distanziamento dal conflitto da parte della maggior parte degli sportivi russi. Ovviamente, sono cosciente che una presa di posizione del genere potrebbe comportare dei pericoli a livello di sicurezza personale. Conosco una sprinter bielorussa (Krystsina Tsimanouskaya, ndr) che dopo i Giochi di Tokyo non è più tornata in patria e ha trovato protezione acquisendo alla nazionalità polacca. Gli aspetti da soppesare, ribadisco, sono molteplici. Non da ultimo l’utilizzo propagandistico dello sport al quale, lungo la storia, la Russia non ha mai rinunciato».