Andres Ambühl, il Benjamin Button dell’hockey svizzero: «Voglio un altro trofeo»

Sulla parete accanto allo spogliatoio del Davos c’è un enorme murale, il quale - oltre a raffigurare uno stambecco - recita a caratteri cubitali: «Enjoy the game» («Goditi/godetevi la partita»). È la famosa frase pronunciata prima di ogni incontro da Georg Lüchinger, la storica voce della Coppa Spengler. Quando Andres Ambühl ci raggiunge, cuffia in testa e sorriso stampato in faccia, glielo indichiamo. Chiedendogli se per lui, a 39 anni e con in tasca un rinnovo fino al 2025 firmato a ottobre, lo spirito è ancora quello. «Sì - ci conferma continuando a sorridere -. Se così non fosse, dopo oltre vent’anni di professionismo, avrei già smesso da un pezzo. In me, invece, la passione per il gioco arde più che mai». Un ottimo punto di partenza per una lunga chiacchierata.
Un ritorno speciale
Pochi istanti più tardi, parlando della Coppa Spengler, cogliamo in fallo il veterano grigionese. «Quante ne ho disputate? Andiamo, ho perso il conto (ride, ndr)!». Il sito ufficiale del torneo non ci aiuta, il vitale portale «eliteprospects.com» ne indica 14, ma si riserva il diritto all’errore. «Poco importa, comunque. Ognuna di esse è stata speciale» ci salva in corner il nostro interlocutore. «Quella in corso particolarmente. Perché sì, mi ha fatto male vedere il torneo sparire dai radar per ben tre anni. Ancora di più essendo nato e cresciuto a Davos». Insomma, per Andres non si tratta di una competizione qualsiasi. Così come «Bühli», a sua volta, appartiene a una categoria a sé stante. Quella che racchiude gli atleti alla «Benjamin Button», che col passare degli anni migliorano invece di regredire. «Me lo dicono spesso (altra risata, ndr). La verità è che sono anche stato molto fortunato, perché in carriera non ho mai subito grossi infortuni. Questo mi ha permesso e mi permette tuttora di sentirmi “fresco” e pimpante, nonostante non abbia più 25 anni».
I valori di mamma e papà
Un’altra ragione, a sentire l’originario della valle di Sertig, risiede nelle radici contadine della sua famiglia. La quale, a due passi da Davos, lo ha cresciuto con determinati principi. «I miei genitori mi hanno insegnato il valore del duro lavoro, questo è sicuro - rileva il capitano dei gialloblù -. Mi è entrato nel DNA, tanto che fino a qualche estate fa - ora hanno concluso l’attività - spesso andavo ad aiutarli quando l’hockey era fermo. Credo che questo, in qualche modo, mi abbia temprato corpo e mente. È difficile piegarmi (ride, ndr). Posso però cogliere l’occasione per sfatare un mito? Non è vero che mangio in maniera particolare od oculata, anzi. La verità è che a tavola scelgo sempre ciò che mi piace, perché mi rende felice. Di riflesso, il corpo ne trae comunque beneficio». E, aggiungiamo noi, ad approfittarne è spesso stato anche il «suo» Davos. Che fino a qualche anno fa era allenato dal leggendario Arno Del Curto, una sorta di secondo padre per Ambühl. «Sì, c’è tanto di Arno in me. È stato lui a darmi una chance quando ero uno “sbarbatello”, concedendomi spazio e fiducia. Se la mia carriera si è sviluppata in un certo modo, lo devo anche a lui».
Amato, ma introverso
Al netto dei tanti, tantissimi successi raccolti sul ghiaccio - sui quali torneremo fra poco -, è quanto Ambühl ha saputo generare fuori dalle piste che lo caratterizza per davvero. Da anni il classe 1983 viene ciclicamente eletto quale giocatore più amato e apprezzato del nostro hockey. E nel tempo ha raggiunto uno status che - forse - mai nessuno prima di lui aveva toccato. Un paradosso, poiché caratterialmente il numero 10 è invero timido e introverso. «La spiegazione che mi sono dato riguardo a questo fatto, che mi scalda il cuore, è che probabilmente la gente apprezza la mia genuinità. Non ho mai cercato di essere ciò che non sono, quel che vedete è autentico al 100%. Ma proprio per questo motivo non amo parlare di me al singolare. Il nostro è uno sport di squadra e il focus dovrebbe sempre essere posto sul collettivo». Noi invece insistiamo, e chiediamo a «Bühli» di lanciare uno sguardo all’indietro. Agli oltre vent’anni di carriera arricchiti - tra le altre cose - da sei titoli svizzeri, due Coppe Spengler, un argento mondiale e uno storico record di presenze alla rassegna iridata. «Vedi, mi riesce difficile pescare qualcosa e dire “Okay, questo è stato il mio exploit più bello o significativo”. Dietro a ogni successo vi sono decine di storie, momenti speciali che porterò sempre con me anche quando avrò smesso di giocare». Se mai lo farà, peraltro, visto l’andazzo. «Sì, prima o poi dovrò dire basta anch’io (sorride, ndr). E quando lo farò, in pista mi rivedrete solo con qualche amico nel tempo libero. Ma vorrei che l’hockey rimanesse parte integrante della mia vita. Dopo la carriera non mi dispiacerebbe passare dall’altra parte e assumere un ruolo dirigenziale o entrare in uno staff tecnico. Ma è musica del futuro, per ora voglio continuare a godermi questo splendido viaggio. E perché no, tornare a festeggiare un trofeo. Magari fra pochi giorni».