Atleti, ma anche pionieri

«Il ragazzo si romperà il collo». Reagirono così gli allenatori vedendo un 16.enne Dick Fosbury sforzarsi di superare l’asticella del salto in alto non secondo la tecnica del giro di pancia o della forbice, ma a modo suo, dorsalmente. Il collo, il ragazzo di Portland, non se l’è invece mai rotto. Anzi. Cinque anni più tardi, il classe ‘47 venne consacrato ai Giochi di Città del Messico, rivoluzionando questo sport ed entrando nella storia dell’atletica grazie al suo «Fosbury flop», valsogli l’oro olimpico con tanto di record saltando 2,24 metri. Giorni fa Fosbury ha perso la sua battaglia contro il cancro, lasciando la sua tecnica quale eredità ancora oggi universalmente riconosciuta. Studente di ingegneria, dopo aver iniziato con il salto a forbice lo statunitense si applicò nello studio dello «straddle», senza però ottenere grandi risultati. Così, nel cortile di casa sua e in quello dell’università dell’Oregon, sperimentò un nuovo approccio. Prendeva una lunga rincorsa, effettuava una curva destrorsa, staccava con il piede più lontano dall’asticella, raccoglieva al petto il ginocchio della gamba sinistra e, voltando le spalle all’ostacolo, effettuava lo scavalcamento di schiena, sulla quale poi ricadeva. Una tecnica resa possibile dalle modifiche degli impianti, in particolare dalla sostituzione della sabbia, nella zona di ricaduta, con blocchi di gommapiuma. Un atterraggio di schiena da un’altezza superiore ai 2 metri sarebbe altrimenti stato impossibile. La vittoria di Fosbury a Città del Messico aprì la strada al nuovo stile in tutto il mondo.
Un getto a stelle e strisce
Insieme a Fosbury, altri atleti sono entrati nell’Olimpo dei rivoluzionari grazie a delle modifiche più o meno drastiche apportate alle varie discipline dell’atletica leggera. Nel mondo del getto del peso, il primo a differire sensibilmente dagli altri fu l’americano Clarence Houser, che, negli anni ’20, mise l’accento sulla velocità di esecuzione. Si dovette poi al connazionale Parry O’Brien un’innovazione tecnica essenziale, consistente nel partire con le spalle rivolte alla linea di lancio e il piede destro arretrato quale perno per compiere un giro di 180°, proiettando la sfera dall’estremo opposto della pedana. Lo statunitense fu inoltre tra i primi lanciatori a usare il sollevamento pesi per incrementare la sua forza. Conquistò per la prima volta il Mondiale nel 1953 con 18 m, distanza che portò a 19,30 nel 1959. Nessuno ha saputo incidere quanto lui nella storia di questa specialità. Nei primi anni ’70 il connazionale Brian Oldfield adottò poi lo spin, o tecnica rotatoria. Secondo alcuni, però, non sarebbe stato il primo a utilizzarla. La Yessis Review of Soviet Sports attribuisce infatti a Viktor Alekseyev il merito di averla insegnata ai giovani pesisti fin dagli anni ‘50.
Un detentore dubbio
Il primo ostacolista moderno fu Alvin Christian Kraenzlein. Ai Giochi di Parigi nel 1900 si aggiudicò quattro medaglie d’oro. Nel 1898 aveva già stabilito grandi record sulle distanze in yards, centrando un primato che durò per ben 25 anni. Lo statunitense fu il primo ad adottare la tecnica della gamba tesa all’attacco dell’ostacolo (lo stile straight leg). Tuttavia gli inglesi attribuirono questa importante innovazione a uno studente di Oxford, Arthur Crome, che l’avrebbe utilizzata già dal 1886, almeno in allenamento. In seguito l’americano Forrest Smithson revisionò la tecnica ritardando la gamba di stacco per ritrovarsi in condizioni di maggiore equilibrio per riprendere la corsa una volta superato l’ostacolo. Nel 1916 il canadese Earl Thomson e lo statunitense Robert Simpson provarono poi a saltare con le braccia protese in avanti, metodo che non ebbe però fortuna.
L’impronta norvegese
Il mondo del salto con l’asta, invece, fu testimone di scuole, materiali e tecniche di allenamento che crearono uno scollamento tra Stati Uniti e resto del mondo. A superare questa differenza ci pensò Charles Hoff. Nel 1925 il norvegese portò il record del mondo a 4,25 m. Il segno di Hoff in questa disciplina fu indelebile. Inventò infatti la tecnica del fly away, cioè del volar via, contrapposta al jack knife, o a coltello, in voga presso gli americani. La differenza tra le due tecniche riguarda il passaggio dell’asticella, il modo e il momento in cui lasciare l’asta. Nel fly away l’atleta continua a puntare i piedi verso l’alto, anche quando è sopra l’asticella, spingendo con le braccia, e l’asta viene quasi rigettata indietro nel momento in cui l’atleta la lascia andare. Nel jack knife ci si chiude come un coltello a serramanico sull’asticella e si trattiene l’attrezzo fino all’ultimo, per poi lasciarlo con la punta delle dita. Alle Olimpiadi del 1952 Georgios Roubanis attirò invece l’attenzione degli spettatori perché l’asta da lui utilizzata sembrava piegarsi per poi tornare a distendersi: era infatti costruita in materiali di fibra vetrosa. Il perfezionamento dell’attrezzo richiese però circa dieci anni: la scadente flessibilità e la fragilità ne sconsigliavano infatti l’uso.
Tra cavalli, stantuffi e planaggi
Il primo grande protagonista del salto triplo fu il giapponese Chuhei Nambu, che negli anni Trenta imparò i segreti della corsa osservando i cavalli, quelli del salto studiando le rane e le scimmie, e quelli del movimento delle braccia imitando il lavoro degli stantuffi dei locomotori. Nambu divenne uno dei più grandi specialisti del salto in lungo e del salto triplo, detenendone contemporaneamente i record del mondo (impresa mai più riuscita a nessun altro). Al contempo iniziarono a svilupparsi altre scuole, come quella sovietica, di Leonid Sherbakov, e quella polacca di Jozef Schmidt. La modernità di quest’ultimo stava nel perfezionare la fase finale del salto, ovvero il volo e il planaggio. La strada tracciata da Schmidt fu percorsa dagli atleti che vennero dopo di lui.