Basket

Dall’Arizona alla Svizzera, il lungo viaggio di Lawrence

Sognava il football, ma a permettergli di affermarsi è stata la palla a spicchi: «Sono molto fiero del mio cammino» – Il miglior marcatore dei Lugano Tigers non si accontenta: «Spero di fare il professionista a lungo, mi alleno ogni giorni per questo»
Il bianconero Kimani Lawrence in azione. ©Ti-Press/Pablo Gianinazzi
Mattia Meier
26.11.2022 06:00

Da Providence a Lugano, passando per l’Arizona. Il viaggio di Kimani Lawrence, iniziato 24 anni fa, non è in fondo molto diverso da quello di altri “globetrotter” della pallacanestro. Storie di emancipazioni e rivalse verso i destini cui la vita sembra averli inizialmente assegnati. Una piccola città (per gli standard americani) di un piccolo stato (Rhode Island) a sud di Boston. Un ragazzo che cresce con mamma e fratello, si avvicina al football («Il mio primo grande amore, tutto quello che volevo era arrivare in NFL»), prima di scoprire, nei campetti vicino a casa, la pallacanestro. Sport in cui il ragazzo dimostra di saperci fare. Raccogliendo così le speranze dei parenti, e quelle di un intero quartiere, tutta una famiglia. «Sfrutta il tuo talento, mi dicevano tutti. Usa il basket per prendere altre strade, andartene da qui, costruire qualcosa», racconta in video quando è al college. Alla fine del primo anno di liceo, prende una decisione; lascia il football per concentrarsi solo sulla palla a spicchi.

Ampi orizzonti

Oggi, il ragazzo che veste la maglia di “top scorer” dei Tigers viaggiando a 23 punti di media, guarda con orgoglio a quella scelta. Non solo lui: «A casa sono fieri di me, e anch’io lo sono. Per quello che ho fatto e sto facendo certo, ma anche perché so di poter essere d’ispirazione per altri ragazzi, mostrare loro che puoi andare ad un college di alto livello e poi diventare professionista anche nascendo in un posto piccolo come il nostro. Quando ero ragazzo, nessuno dei miei amici pensava a queste possibilità, nessuno aveva questa prospettiva, ero l’unico». Il viaggio vero inizia a 14 anni, quando lascia la terra natia per il Massachusetts. Soli 80 chilometri di distanza, che finiranno per aprirgli ampi orizzonti. Approda nell’”AAU Circuit”, (in breve, circuito che permette ai ragazzi di giocare in vari tornei di fronte a scout dei college e della NBA), negli USA la miglior vetrina per un giovane liceale, e il suo nome finisce sul taccuino di diversi scout. Sceglierà poi Arizona State, in Division 1 (il miglior livello collegiale), università che ha dato al basket, fra i tanti, giocatori come James Harden, Mike Batiste, ai tempi Byron Scott. «Arizona ha un programma d’eccellenza, mi ha permesso di crescere molto, come giocatore e come persona. Ho avuto alti e bassi, sia in campo che fuori, ma ho sempre avuto supporto della scuola, del coach. Ho cercato sempre di rimanere me stesso, senza mollare. Sono sempre stato uno che finisce quello che ha iniziato».

Un piede nella storia

Nel 2019 approda anche alla “mitica” March Madness: «Si affronta il meglio del meglio dei college, percepisci l’entusiasmo anche solo camminando per il campus, e giochi ogni partita a tutta perché sai che potrebbe essere l’ultima. Anche se siamo stati eliminati presto, al secondo turno, è stata una grande esperienza». Ad Arizona State finisce per rimanere 5 anni, durante i quali verga una pagina di storia. Il 25 febbraio 2021, in una partita della PAC 12 (uno dei tornei di college più prestigiosi), piazza una doppia doppia da 21 punti e 20 rimbalzi, primo a fare un 20+20 per l’ateneo dopo Batiste nel 1997, decimo in tutto nella PAC 12 dal 1996. Altri a farlo? Deandre Ayton, prima scelta assoluta NBA 2018, per dirne uno. «Una serata di grande realizzazione personale. Rientravo da poco da un infortunio che mi aveva tenuto fermo per un po’, un momento difficile, quella prestazione mi aiutò non poco a ritrovarmi. E lasciare un segno ad Arizona è qualcosa di cui vado fiero».

Disegnare il futuro

Dopo l’Arizona, la Svizzera. Dove ha portato i suoi 202 cm condensati di talento a attitudine al lavoro. «Avevo scelto Arizona State perché mi ero sentito cercato e avevo intuito che lì avrei trovato lo spazio per crescere. Con Lugano è successa più o meno la stessa cosa, anche se ovviamente conoscevo meno questa realtà. E in questi primi mesi sto avendo le risposte che mi aspettavo. Mi piace essere un giocatore “all-round”, uno di quelli che può fare svariate cose in campo, e il campionato svizzero mi permette di farlo al meglio». E i 5 anni al college fanno di lui un “rookie” particolare; novizio sì, ma con già parecchia esperienza alle spalle: «Sì, devo essere un leader e intanto imparare ancora. Non è sempre facile, ma c’è Zinn che mi aiuta molto. Robert è un ragazzo davvero in gamba; da come preparare ed approcciarsi ad una gara, per dire, ai “trucchetti” da usare in campo, all’alimentazione, i suoi consigli sono sempre preziosi». Insegnamenti anche per il futuro: «Spero di poter fare il professionista a lungo, ovunque sarà. MIialleno ogni giorno per questo. Ho ambizioni come tutti, ma senza applicazione non vai da nessuna parte». Del nostro paese, non apprezza solo il campionato: «Poter uscire dagli USA, conoscere una nuova cultura, i suoi ritmi, le sue particolarità, era una cosa che desideravo. Poterlo fare venendo pagaton e facendo quello che ami è il massimo. A Lugano mi trovo benissimo, mi piace, tutto qui». E nel suo caso, l’espressione “mani da pianista” non è del tutto campata in aria: «Vero (ride ndr.). Anni fa ho imparato a suonare, da autodidatta. Mi piace il piano. Anche disegnare. Me la cavo bene. Oggi però ho accantonato un po’ il tutto perché il basket mi prende parecchio tempo». Noi per il momento ci accontentiamo di vederlo dipingere scorribande e canestri sui nostri campi. Con il suo talento, siamo certi che presto gli si apriranno altri nuovi orizzonti per disegnare il suo futuro.