Basket

«Ma l'etichetta di formatore me la porterei anche in NBA»

Intervista al nuovo allenatore dei Tigers, ex tecnico delle ragazze momò: «Lascio una famiglia, ma non potevo rinunciare a questa proposta»
Valter Montini a bordo campo durante una partita del Riva. (© Ti-Press / Alessandro Crinari)
Fernando Lavezzo
21.06.2022 06:00

Con una mossa a sorpresa, dopo la rinuncia di Salvatore Cabibbo (tornato alla SAM Massagno in qualità di assistente), i Lugano Tigers hanno pescato il loro nuovo allenatore nel basket femminile, strappando il comasco Valter Montini al Riva. Lo abbiamo intervistato.

Signor Montini, anche lei è rimasto sorpreso dalla chiamata del presidente bianconero Alessandro Cedraschi?

«Sì, mi ha sorpreso, ma poi ci siamo accordati in fretta, andando dritti al sodo. Non conosco i dettagli della partenza di Totò Cabibbo, fatto sta che si è improvvisamente aperta questa bella opportunità. Non vi nascondo che già negli scorsi anni c’era stato qualche blando contatto con Cedraschi».

Prima di accordarsi con i Tigers, era intenzionato a proseguire con le ragazze del Riva in Serie B?

«Sì, io e il club momò avevamo la volontà di continuare insieme. Ma di fronte a una proposta come questa, arrivata da una società della Serie A maschile, con una tradizione e un palmarès importanti, era davvero difficile rinunciare».

Le mancherà il Riva?

«Guardi, io ad Alessandro Cedraschi ho chiesto una sola cosa: poter comunicare la mia decisione alla presidente momò prima che la notizia venisse data ai media. Dal lato emotivo, lasciare questa società è un enorme dispiacere. A Riva sono stato trattato come uno di famiglia. Da tutti: tifosi, dirigenti, giocatrici, genitori. Anche dal sindaco. Negli ultimi anni, quelli più complicati, affrontati con una squadra molto giovane e ogni stagione diversa a causa delle partenze per gli studi universitari, si sono creati dei legami ancora più forti, dei sentimenti profondi. Nelle difficoltà, avevamo la necessità di costruire qualcosa di valido dal punto di vista sportivo e umano. Io posso sembrare esigente, severo e burbero, ma ho cercato di dare alle ragazze qualcosa che andasse oltre l’aspetto tecnico. In cambio, loro mi hanno aiutato a migliorare come persona e come allenatore. Cercando le soluzioni più giuste per loro, infatti, ho imparato a percorrere strade che prima non avevo mai preso in considerazione».

In passato, quando si parlava ancora poco di «mental coach», lei lavorò con degli psicologi per migliorare il suo approccio con lo spogliatoio. Può parlarcene?

«La cosa risale a una ventina di anni fa. Mi stuzzicava l’idea di confrontarmi con un mondo, quello della psicologia sportiva, che era distante da me. Volevo soprattutto capire se ero lacunoso in qualche aspetto. Dopo quegli incontri, oltre a rafforzare alcune mie convinzioni, ho capito l’importanza di mitigare certe reazioni di fronte a un cattivo allenamento, a un esercizio eseguito male, a una scarsa attenzione da parte degli atleti e delle atlete. Sono cose che succedono quotidianamente e che noi tecnici dobbiamo imparare ad accettare. Bisogna dormirci sopra una notte intera, evitando così di aprire inutili conflitti. È fondamentale trovare una soluzione per trasformare ciò che non è andato bene il giorno prima in un atteggiamento vincente per il futuro».

Restando all’aspetto psicologico del suo mestiere, cosa distingue uno spogliatoio femminile da uno maschile dal punto di vista dell’allenatore? E lei come vivrà il passaggio dal Riva al Lugano?

«Rischiando di scivolare nei luoghi comuni, in una squadra femminile l’ambiente è più vivace e a volte polemico, mentre in un gruppo di uomini, all’apparenza più sanguigno, è più facile risolvere amichevolmente molti dei conflitti che si creano in una stagione. È una diversità che personalmente ho percepito, avendo già allenato anche i maschi. Oggi mi approccio alla realtà dei Tigers con grande fiducia, senza alcuna paura. In carriera ho vissuto molte situazioni e ritengo di essere in grado di affrontare e risolvere una variegata gamma di problemi».

Cercando informazioni su di lei, emergono soprattutto le esperienze e i successi ottenuti nella pallacanestro femminile italiana. Si sa invece pochissimo delle sue esperienze al maschile.

«Alla fine degli anni Ottanta iniziai ad allenare quasi per caso, per amicizia, cominciando con le ragazze. Poi, però, la società in cui avevo giocato, la Virtus Cermenate, mi contattò per fare da assistente al mio ex allenatore. In seguito ho avuto una lunga carriera nel femminile, sì, ma otto anni fa sono tornato a Cermenate per due stagioni da capo allenatore, prima di trasferirmi qui in Ticino. Stiamo parlando di una squadra di Serie C Gold, non professionale, ma di livello molto alto. Da noi arrivavano ragazzi provenienti dalle giovanili di Cantù e Desio. Sono state esperienze molto belle».

Andrea Petitpierre, ex allenatore dei Tigers con importanti trascorsi nel basket femminile, sostiene che in Italia, quando vieni bollato come «allenatore delle donne», non trovi più spazio nel basket maschile. È vero?

«Io Andrea lo conosco molto bene, è un amico che stimo e che ho avuto come assistente alla Geas di Sesto San Giovanni in Serie A1. Ha ragione: c’è una specie di separazione tra i due mondi. Si fa fatica ad accettare che un allenatore di basket femminile possa passare al basket maschile, mentre il contrario è considerato normale. Io lo ritengo un muro immotivato. In generale, la pallacanestro maschile è più aggiornata e più avanzata, ma le distanze si sono accorciate nel tempo. La fisicità è ovviamente diversa, ma dal punto di vista tecnico siamo vicini. Io, nello sport femminile, ho spesso trovato una tenacia, un’accuratezza e un’acutezza che anche i migliori maschi invidierebbero».

Approda ai Tigers con l’etichetta di «formatore». Cedraschi ha voluto sottolinearlo, visto che anche nella prossima stagione vedremo un Lugano molto giovane. Ma cosa significa essere un allenatore-formatore in una squadra di Serie A, con 3 o 4 stranieri professionisti in rosa?

«Il discorso è molto semplice: anche in prima squadra bisogna proseguire la formazione. I giocatori più esperti, vicini ai trent’anni, hanno comunque la necessità di continuare ad allenare e perfezionare i fondamentali, le esecuzioni, i movimenti. Sono dettagli molto significativi per il risultato finale. Io non abbandonerei mai l’idea formativa, nemmeno se allenassi in NBA. Anche il miglior giocatore del mondo ha bisogno di coltivare gli aspetti essenziali della pallacanestro in maniera accuratissima: palleggio, passaggio, tiro, movimenti basilari della tattica. Io vedo la prima squadra come un prolungamento della formazione giovanile».

Che Lugano si aspetta di avere tra le mani tra qualche mese?

«Il punto di partenza sono appunto i giovani. C’è la volontà di farli crescere dopo uno o due anni di esperienza in Serie A. Inoltre, il presidente sta facendo uno sforzo per allestire un budget che ci permetta di avere uno o due giocatori svizzeri di maggiore esperienza, oltre a tre stranieri. Solo quando avremo la rosa definita, potremo pensare concretamente a un tipo di gioco e di difesa. In questo momento, sulla carta, potrei parlare solo in maniera astratta dei miei pensieri cestistici. Pensieri che andranno adattati alle qualità fisiche, tecniche e umane dei giocatori che arriveranno».

Chiudiamo con un tuffo nel passato: la Coppa Svizzera vinta nel 2016 con il Riva-Muraltese è stata il suo capolavoro in Ticino?

«È stata il capolavoro di tanti, non voglio prendermi i meriti. Ci ho messo del mio a livello strategico, contro un Friburgo nettamente favorito. Ma alla base di quel successo c’era l’entusiasmo e l’emozione di un’intera comunità. Dietro alle ragazze e al loro allenatore c’era tutta Riva San Vitale».