Branchini: «Soltanto una crisi profonda potrà ridare equilibrio al calcio»

Giovanni Branchini è un’icona nel mondo del calcio. Dalla sua agenzia, nel corso degli anni, sono passati campioni senza tempo. Uno su tutti: Ronaldo. Il Fenomeno, quello brasiliano. Oggi quel mondo, il suo mondo, ha tuttavia cambiato volto, diventando quasi irriconoscibile. Ne abbiamo parlato con lo storico agente italiano, incontrato in occasione della conferenza tenutasi ieri a Chiasso nell’ambito di «On Stage», un progetto ideato da AGE SA con l’intento di offrire alla popolazione serate di interesse generale.
Signor Branchini, lei opera in questo settore da decenni. Che opinione ha del calcio oggi, nel 2024?
«Attualmente il calcio vive una grossa contraddizione. Da un lato ha raggiunto un livello di penetrazione universale, nel senso che ormai è popolare ovunque. Dall’altro sta tuttavia facendo i conti con una crisi profonda. Una crisi di talenti, del sistema e anche gestionale, dovuta alla mancanza di controllo da parte di chi ha il potere e le strutture per poter regolamentare le attività di questo mondo. E, di riflesso, di coloro che ne fanno parte».
Assumendo che in passato fosse diverso, quando è avvenuta la svolta che ha indirizzato questo sport verso i binari sui quali sta attualmente viaggiando?
«Il calcio ha subito un grande cambiamento nel momento in cui la sua popolarità ha favorito una crescita esponenziale delle entrate economiche. E quindi, di pari passo, delle disponibilità finanziarie. Questo processo si è avviato nei primi anni 2000, per poi conoscere un boom definitivo dopo il 2010. L’evoluzione del mondo pallonaro ha fatto sì che attorno al fenomeno calcio si avvicinassero pure persone che lo vedevano - e lo vedono tuttora - come un ambito professionale ricco e redditizio, in grado di regalare soddisfazioni di tipo economico. Valori, va da sé, ben lontani dai più classici concetti di passione, tradizione e amore. A mio avviso l’avvento delle nuove dinamiche e le figure a esse legate - divenute in fretta protagoniste - ha cambiato nettamente in peggio questo mondo. E lo affermo pur ammettendo che i giocatori, gli allenatori e ovviamente gli agenti - non lo nascondo - ne hanno beneficiato, approfittando di guadagni e incassi che sono fortemente lievitati».
Tutto questo poteva essere evitato?
«Credo sia giusto sottolineare la cattiva gestione della situazione da parte di coloro che avrebbero dovuto proteggere maggiormente determinati equilibri, che invece sono saltati. E a supporto di questa mia tesi vi sono decine di prove. Penso ad esempio alla “guerra santa” che è stata innescata nel momento in cui è stata paventata l’ipotesi di una Superlega, in forte contrasto col totale silenzio che la scorsa estate ha invece avvolto la prepotente entrata in scena a suon di milioni dell’Arabia Saudita, consentendole di divenire uno degli attori principali. Ecco, in quell’occasione nessuno ha tirato in ballo i sentimenti dei tifosi, o il depauperamento delle tradizioni. Accettando senza fiatare il fatto che ora per vedere svariati campioni bisogna passare da Gedda o da Riad. Allora la vera domanda è: perché nessuno ha osato intervenire?».
Già, perché?
«Perché ognuno difende i propri interessi. Solo che se lo fa un libero professionista, seppur facendo storcere il naso, tendenzialmente è accettabile. Quando invece lo fanno enti e istituzioni che non dovrebbero avere scopi di lucro, penso ad esempio a FIFA e UEFA, il problema si fa molto serio. Noi oggi paghiamo le conseguenze di tutta una serie di mancati controlli e mancata attività da parte di questi organi. I cui sforzi e le cui attenzioni sono esclusivamente rivolti alla conferma dello status quo, alla raccolta dei voti da parte dei loro esponenti, per essere rieletti. Come? Essendo magnanimi con tutte le Federazioni, costruendo manifestazioni sportive di cui nessuno sente l’esigenza, e via dicendo. Come potete immaginare, questo non fa il bene del calcio. A maggior ragione in un momento in cui le sue componenti essenziali - cioè i giocatori e gli allenatori - chiedono disperatamente di ridurre il numero di partite. Invece FIFA e UEFA vanno nella direzione opposta, aumentando gli impegni per poter distribuire maggiori ricchezze nelle tasche di coloro che decidono del loro futuro. Mantenendo di riflesso un potere che è molto più grande di quanto la gente possa immaginare».
Lei ha vissuto epoche ben più «romantiche». Come la fa sentire tutto questo?
«In un certo senso posso dire che la vivo bene, perché da anni combatto queste battaglie. Ho la fortuna di avere il rispetto di tutte le istituzioni perché ho una storia che mi permette di essere considerato un benemerito e non uno sciacallo. Purtroppo, allo stesso tempo, la frustrazione è grande perché nonostante molti punti siano chiari e acclarati, non accade nulla. E questo è un problema che si sviluppa a cascata, perché ovviamente le Federazioni nazionali, che hanno un rapporto di sudditanza rispetto agli enti internazionali, hanno tutti gli interessi a non entrare in rotta di collisione con gli stessi. Così però si innesca un meccanismo di omesso soccorso che fa sì che oggi il calcio vada incontro a un momento molto difficile. L’aspetto più clamoroso all’interno di questo disegno risiede nella crisi di talenti. Oggi ci sono molti meno campioni “veri” rispetto a quelli che avevamo 30 anni fa, perché il sistema, “drogato” dal denaro, non permette alle giovani promesse di fare quel percorso di maturazione che consente a un atleta talentuoso di diventare un campione. Rispetto al passato sono venuti meno i sacrifici, l’umiltà, i passaggi chiave. Oggi appena un calciatore mostra un po’ di qualità viene coperto di denaro, i social lo rendono popolare e gli viene sottratta la possibilità di fare quell’apprendistato che in passato ha permesso di trasformare dei talenti in campioni».
A proposito di campioni, quello che viene indissolubilmente associato al suo nome è Ronaldo il Fenomeno. Ha mai pensato a cosa sarebbe Ronaldo oggi, se avesse dovuto confrontarsi con il calcio odierno?
«La prima domanda che mi porrei in tal senso sarebbe: Ronaldo, oggi, sarebbe riuscito a diventare il Ronaldo che tutti noi conosciamo? Io ho iniziato a seguirlo quando aveva 17 anni, ed era già inserito nel Brasile che vinse il Mondiale del 1994, seppur da riserva. È sempre stato un ragazzo molto intelligente, e dunque ritengo che nel suo caso sarebbe comunque riuscito a diventare un grande campione anche oggi. Le propongo allora di fare un salto più indietro prendendo un altro grande campione passato dalla mia agenzia: Romario, che oggi è un senatore della Repubblica in Brasile e una persona di grande successo. Ecco, Romario ha concluso la sua carriera prima che iniziasse un certo boom del calcio. Lui probabilmente avrebbe potuto assurgere a una popolarità e dei guadagni decisamente maggiori rispetto a quelli che ha ottenuto. In quel periodo, assieme a Maradona e Van Basten, era infatti uno dei tre giocatori più forti al mondo».
Il suo lavoro invece, rispetto a quelle epoche, quanto è cambiato?
«L’aspetto in cui è mutato maggiormente è il rapporto con le famiglie. Mi spiego meglio: il fatto che oggi i ragazzi vengano avvicinati e arricchiti in tenera età, in modo prematuro, fa sì che i contatti con i calciatori avvengano in una fase in cui è indispensabile relazionarsi con le rispettive famiglie. Quando ho iniziato a fare questo mestiere, il rapporto con un calciatore veniva avviato attorno ai 18, 19 o addirittura 20 anni. E quindi il giocatore aveva già una certa autonomia e un certo carattere. È chiaro che se oggi la relazione parte già a 16 anni, è indispensabile avere a che fare con i genitori. E in un mondo in cui il denaro non è più un punto d’arrivo, bensì un punto di partenza, non è difficile comprendere come la cosa abbia preso una piega preoccupante. Spesso quando si approccia un possibile nuovo cliente, la prima domanda che ci viene posta è “quanto mi dai?”, e questo è sbagliato. Non solo perché è vietato da norme che comunque nessuno fa rispettare, ma anche perché, banalmente, il dottore non paga il paziente. Se però il paziente crede di essere sano, è difficile che ascolti il dottore. E lo stesso accade a noi quando si prova a consigliare la via da intraprendere. Ecco, questo è forse il cambiamento più difficile al quale ho dovuto far fronte. Il resto è relativo. Alla fine ci si adatta, riuscendo a mantenere il proprio stile. Sono conscio che nel mondo del calcio tantissime persone lavorano per guadagnare, convinti che i giocatori siano come delle azioni, che si acquistano sperando che il valore salga propiziando un utile. Io invece ritengo - e ho sempre ritenuto - che il nostro lavoro consista nel piantare una pianticella, aiutandola a diventare un albero grande e forte, con una lunga vita».
La sua visione sul calcio moderno è chiara. Intravede una possibilità di rimettersi su binari più sani, o il treno ormai è deragliato?
«Se andremo avanti a fornire gli spettacoli che stiamo fornendo, prima o poi anche l’onda positiva dei nuovi fruitori del calcio - il Medio Oriente, l’Asia, ecc. - vivranno un momento di svolta in cui scatterà la disaffezione. E ho la sensazione che giunti a quel punto, le quattro pietre che rotolano diverranno una slavina. La mia fiducia nel fatto che il nostro mondo sappia correggersi autonomamente è pochissima. Penso allora che sarà necessaria una crisi profonda, al fine di riportare al centro dell’attenzione la competenza, la passione e l’equilibrio».
Ho un’ultima curiosità. Scorrendo i suoi attuali assistiti, ho notato che vi è anche il difensore ticinese Allan Arigoni. Sulla carta il vostro appare un matrimonio un po’ anomalo, no?
«Quello che molti non comprendono, è che nell’accezione più corretta della nostra professione, il cliente è importante a prescindere dalle sue qualità e il suo potenziale. Questo perché mette la cosa più preziosa che ha, la sua carriera, nelle nostre mani. È un enorme voto di fiducia, che va preso seriamente. Tornando ad Allan, sono felice per lui, che ha colto una bella opportunità volando a Chicago, non solo professionale ma anche sul piano personale. Parla svariate lingue, dunque si troverà benissimo (sorride, ndr). Mi auguro che possa cogliere le soddisfazioni che merita».