Hockey

Bürgler: «Per la mia ventesima stagione in A sono venuto ad abitare ad Ambrì»

L'attaccante leventinese ripercorre alcune tappe della sua carriera e ci racconta qualche storia di famiglia - Questa sera l'esordio in casa contro il Rapperswil
© CdT/Gabriele Putzu
Fernando Lavezzo
15.09.2023 06:00

Quando Dario Bürgler debuttò in NLA, il 23 ottobre del 2004, il suo attuale compagno di squadra Tommaso De Luca non era ancora nato. Questa sera alla Gottardo Arena (ore 19.45), contro il Rapperswil, l’attaccante 35.enne (saranno 36 in dicembre) inizierà la sua ventesima stagione nel massimo campionato svizzero. Non lo sapeva.

Dario, contando anche il campionato 2004-2005, nel quale giocasti soltanto due partite con la prima squadra dello Zugo, questa sarà la tua ventesima stagione in NLA. Che effetto ti fa?

«Non ci avevo pensato. Ricordo bene il mio esordio assoluto nel 2004, in una partita vinta contro il Losanna nella vecchia Herti. Sean Simpson mi schierò con Oleg Petrov e Patrick Fischer, per cui vi lascio immaginare il mio nervosismo. Non avevo ancora 17 anni, ero solo un ragazzino che sognava di diventare un giocatore di hockey professionista. Lo Zugo era la mia squadra del cuore, quella per cui tifavo e in cui ero cresciuto dopo aver mosso le prime pattinate nel Seewen. Diversi miei compagni degli juniores sono poi riusciti a costruirsi una bella carriera. Sono ancora in contatto con molti di loro, ma anche con alcuni di quelli più grandi che mi accolsero in prima squadra. Tra questi, pure Paolo Duca».

Nel 2007, a 19 anni, sei partito per Davos. Una scelta vincente.

«È facile dirlo adesso, ma non sai mai come andranno le cose. Lo Zugo mi aveva proposto di restare ed è stato difficile andare via. In quegli anni, il Davos era la squadra più forte. Erano i campioni in carica. Per me, la cosa più importante era provare qualcosa di nuovo, lontano da casa. Tagliare il cordone ombelicale e iniziare una nuova vita da solo. L’altro fattore determinante è stato Arno Del Curto. Ogni giovane talento che andava da lui, diventava un giocatore importante. Io pensavo di non essere ancora abbastanza bravo, così gli chiesi se avrei avuto davvero spazio. Lui, prima ancora che firmassi, aveva già perfettamente in testa i compagni di linea con cui avrei giocato».

Senza i due titoli nazionali vinti con il Davos, nel 2009 e nel 2011, guarderesti la tua carriera con gli stessi occhi?

«È innegabile: c’è una differenza tra aver vissuto un’esperienza del genere oppure no. È bello aver vinto, anche se ormai sono passati tanti anni. Più recentemente ci sono arrivato vicino con il Lugano. Nel 2018, anche se ho saltato i playoff per infortunio, ci mancò una sola vittoria. Peccato. Tutto questo, però, ti fa capire quanto vadano veloci le cose nello sport e nella vita. Ecco perché è importante godersi ogni bel momento. Soprattutto quando vinci un titolo. Non puoi sapere se e quando ti ricapiterà».

Tra i sette anni trascorsi a Davos e i sette in Ticino, ci sono state le due stagioni più complicate della tua carriera. Stranamente proprio a Zugo. Come mai?

«Quell’esperienza, per quanto negativa, mi fece maturare tantissimo. Avevo già 26 anni, ma mentalmente non ero ancora stabile come sono adesso. Un paio di cose non andarono per il verso giusto. Forse mi misi troppa pressione per il fatto di essere tornato a casa mia e di voler far bene a tutti i costi. Mi infortunai due volte e questo non facilitò le cose. Inoltre, non entrai in sintonia con lo staff tecnico. Firmai quando in panchina c’era ancora Doug Shedden, ma a inizio stagione l’allenatore era Harold Kreis. Io non riuscii a portare quello che potevo, lui non mi diede fiducia. Dopo due anni, lo Zugo mi disse che era meglio per tutti separarci in anticipo. Io ero d’accordo. Nel frattempo Shedden era andato a Lugano e mi convinse a raggiungerlo».

Sia a Lugano, sia ad Ambrì, sei sempre apparso perfettamente a tuo agio. Merito del Ticino o del tuo spirito d’adattamento?

«Forse è merito delle due società. Mi sono sempre trovato bene, mi hanno aiutato ad integrarmi in fretta. All’inizio, in bianconero, non parlavo l’italiano, ma conoscevo già alcuni giocatori: Furrer, Brunner, Cunti. Ragazzi ticinesi come Chiesa e Sannitz mi fecero subito sentire a casa. Imparare una nuova lingua è stata una bella sfida, ma l’ho affrontata con entusiasmo perché mi avrebbe reso la vita migliore. Quando sono arrivato in Leventina, avevo già questo vantaggio. E anche qui ho trovato un bel gruppo, oltre all’entusiasmo per la nuova arena».

Raramente il giocatore più vecchio di una squadra è anche considerato un top player. Tu sei entrambe le cose: il veterano a cui si chiedono ancora gol e assist.

«Non penso troppo all’età. Per come la vedo io, conta una sola cosa: o sei abbastanza forte per giocare o non lo sei. E il ghiaccio non mente. A 35 anni non sono lo stesso giocatore che ero a 20, ma mi sento ancora bene e non userò mai l’età come alibi. Sono in forma. Integro. Quest’estate non ho mai avuto la sensazione che qualcosa, in me, andasse meno bene rispetto al passato. Voglio iniziare al meglio la stagione insieme a tutta la squadra. Gol e assist sono importanti solo se ci aiutano a vincere. E non sono l’unica cosa che conta».

Sei sempre così calmo come sembra?

«No, non sempre. Sono umano e a volte, in partita, mi surriscaldo. Se qualcosa non va come voglio, oppure se una decisione arbitrale non mi piace, può andarmi il sangue alla testa. Ma anche questo aspetto è migliorato durante la mia carriera. Ho impiegato del tempo per capire chi sono, cosa posso fare e di cosa ho bisogno per funzionare. Sicuramente non ho bisogno di provocare gli avversari, di fare trash talking. Ma non mi scandalizzo se altri lo fanno. Ognuno ha il suo ruolo».

La costanza è il tuo punto forte?

«Lo spero. Ci provo. È sempre un mio obiettivo non avere alti e bassi. Ed è un traguardo a cui deve puntare tutta la squadra. Io cerco di mantenere un livello costantemente alto in allenamento e in partita, per dare il buon esempio».

Da quest’anno abiti ad Ambrì. Come è nata questa decisione?

«Negli anni, io e mia moglie siamo sempre rimasti legati a Zugo. È lì che abbiamo le nostre famiglie e i nostri amici al di fuori dell’hockey. Nostro figlio ha appena iniziato l’asilo, così abbiamo deciso che per lui e la mamma fosse giunto il momento di andare a vivere stabilmente nella nostra casa di Zugo. È lì che abiteremo tutti insieme alla fine della mia carriera. Nel frattempo, io farò avanti e indietro, sfruttando i giorni liberi per andare a trovarli. Vivendo ad Ambrì, siamo più vicini. Mi trovo bene, è una situazione nuova che non condiziona minimamente il mio approccio all’hockey. Abitando vicino alla pista, riesco a dormire un po’ di più prima degli allenamenti (ride. ndr.). Ma appena mi sveglio, il mio primo pensiero è fare tutto ciò che è necessario per poter dare il meglio sul ghiaccio».

Tuo padre Toni, ex nazionale di sci alpino e vincitore della discesa di Wengen nel 1981, ha smesso di gareggiare tre anni prima che tu nascessi. Tuo figlio, invece, è abbastanza grande per ricordarsi di te con pattini e bastone. È una cosa a cui pensi?

«Sì, ogni tanto. Mio figlio viene a vedermi spesso, ma non sempre. Non vogliamo che il mio ambiente rappresenti tutto il suo mondo. Nonostante ciò, ha già iniziato la scuola di hockey. Gli piace tantissimo, a casa non vuole fare nient’altro. Si diverte a imitarmi. Tornando alla domanda, il momento più bello in assoluto è stato alla Coppa Spengler del dicembre scorso. Aveva 4 anni e ha potuto capire delle cose. Ha vissuto lo spogliatoio, è venuto sul ghiaccio per il warm-up contro il Davos, poi di nuovo per la premiazione finale. Questi ricordi gli resteranno per sempre».

Ti dispiace non aver visto tuo padre sciare in Coppa del mondo?

«No, meglio così: se lo avessi visto in azione, magari oggi sarei uno sciatore. E io preferisco l’hockey (ride, ndr.). Soprattutto ai suoi tempi, gareggiare in discesa voleva dire rischiare la pelle ogni giorno. Io ho un paio di amici sciatori di altissimo livello. Marc Gisin, ad esempio. Ho anche conosciuto Marco Odermatt, eravamo insieme a Macolin con l’esercito. Quando li vedo in televisione, penso che siano un po’ matti. È impressionante e fa anche paura. Non so come facesse papà».

Nel 2008 tuo padre si è trasferito a nord di Parigi per gestire una scuderia di purosangue insieme alla sua compagna. Vive ancora da quelle parti?

«No. La cosa divertente è che io abito ad Ambrì, mentre lui si è trasferito a Lugano. Dopo 15 anni in Francia hanno comprato casa a Cureggia, in un bellissimo posto. Quest’estate ci sono stato tante volte. Papà sta vivendo il suo sogno, godendosi lo stile di vita del Ticino».

Torniamo all’hockey. La scorsa stagione è stata la prima, in 19 anni di NLA, in cui la tua squadra non si è qualificata per i playoff o i pre-playoff. Come l’hai vissuta?

«È stato brutto. L’inutile ultima partita a Rapperswil, giocata 48 ore dopo aver perso il derby decisivo in casa, è stata difficilissima. Mentalmente e fisicamente. L’estate è stata troppo lunga. Fa male iniziare la preparazione in aprile quando gli altri stanno ancora giocando i playoff. Da oggi torniamo in pista con l’obiettivo di raggiungere i play-in. Dovremo rimanere sereni, ricordandoci dove vogliamo arrivare, ma anche da dove veniamo».

Non hai mai giocato un Mondiale. Nel 2013 eri in squadra a Stoccolma, ma non sei mai sceso in pista. Quell’argento lo senti tuo?

«Non tanto, onestamente. Però è stata una bella esperienza. Ho visto come possono andare le cose quando una squadra funziona davvero. Già prima di iniziare il torneo c’era un ambiente stupendo, difficile da spiegare. Poi, ovviamente, l’euforia non ha fatto altro che crescere, vittoria dopo vittoria. È incredibile cosa può fare l’energia del gruppo».

Negli ultimi due anni hai giocato all’ala di Heim. Come pensi che se la caverà in Nordamerica?

«Spero che a St. Louis gli diano la possibilità di conquistarsi subito un posto in NHL. Ma se non dovesse succedere, non mollerà. André non è il tipo che finisce a terra dopo il primo colpo. Non perderà la fiducia o la voglia, perché è un gran lavoratore con un grande cuore».

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