Maruccia: «Al lavoro e in campo conta il sorriso»

A casa Maruccia la passione per il pallone è una questione di famiglia. «Mia mamma dice che lo aveva capito già da prima che nascessi, perché scalciavo parecchio nella sua pancia. Ma il vero amore me lo ha trasmesso mio papà: non si è mai perso una partita, nemmeno quelle lontane con il Team Ticino. Per tutte le emozioni che mi ha regalato il calcio, devo ringraziare lui», commenta Mattia, difensore del Semine.
E con il papà Marco è sbocciata anche la fede per la Juventus. «La prima maglia che ho ricevuto, appena nato, era quella di Zidane. Ce l’ho ancora, custodita con cura. Per questo, anche nei periodi meno ricchi di trofei, resto legato ai colori».
La carriera da giocatore, però, ha conosciuto un ostacolo importante. «Ho rotto il legamento crociato a neanche vent’anni, quando già giocavo nel calcio regionale. I sogni, di fatto, erano finiti. È stato un periodo durissimo: l’operazione, la riabilitazione infinita, le notti senza dormire a cercare una posizione che non mi facesse male. In più era il pieno della quarantena, non potevo vedere gli amici né prendermi un semplice caffè al bar. La mia testa era solo lì, sull’infortunio. Ma ho imparato molto, ho scoperto lati di me che non conoscevo».
Poi l’Arbedo, quattro anni intensi. «Con praticamente tutti i compagni cresciuti insieme fin dalla scuola calcio. Momenti indimenticabili: la Coppa Ticino, la Supercoppa, gli ottavi di Coppa Svizzera raggiunti dai miei amici. Ricordi indelebili».
Oggi la maglia è quella del Semine. «Qui sto bene: siamo un grande gruppo di amici che si conoscono da sempre. Alcuni li avevo già ad Arbedo. Il presidente Marotta ci mette anima e cuore e il direttore sportivo Di Zenzo è un vero intenditore di calcio».
E in campo, vista la duttilità, meglio offendere o difendere? «Preferisco attaccare, ma sono flessibile. I mancini non sono tanti, quindi gioco anche da terzino senza problemi. Per me conta vincere ed essere felice: e io lo sono sempre, ogni volta che entro in campo».
Fuori dal rettangolo verde, c’è un’altra vita. «Sto terminando la formazione come Specialista in attivazione. Sono all’ultimo anno e faccio due giorni di stage alla Casa Comunale di Bellinzona. Lavoro per migliorare la qualità della vita dei residenti, mantenendo le loro risorse il più a lungo possibile, con terapie individuali e di gruppo». La parte più bella? «I rapporti che si creano. Vedere i residenti instaurare legami di fiducia e amicizia mi dà enorme soddisfazione».
E un filo rosso lega calcio e lavoro. «Scherzando dico che in entrambi i contesti mi trovo solo con persone anziane. Ma la verità è che sia sul campo sia nella mia professione serve lo stesso: passione, impegno e spirito di squadra. Mi piace pensare di avere proprio questo ruolo: cercare di mantenere l’ambiente positivo».