Michael Casanova: «Cornaredo la mia favola, l'infortunio mi ha aperto nuove porte»

In Radio, in coppia con Danny Morandi, diverte e si diverte. Come sui social, d’altronde. Con tre milioni e mezzo di seguaci, Michael Casanova - per tutti Bella Gianda - non ha mai nascosto la sua grande passione per il calcio e per il Milan. Ex portiere professionista di Lugano e Locarno, Casanova si racconta al nostro giornale.
Michael, difficile stare senza calcio…
«Per me è stato una vera scuola di vita. Mi ha insegnato il valore del sacrificio e del rialzarsi dopo ogni caduta. Ho imparato molto dal mondo e quando ho smesso ho ritrovato lo spirito di squadra in Radio3i».
Prima paravi, ora tifi…
«Oggi vivo il calcio soprattutto da tifoso, sono legatissimo al Lugano e al Milan: adoro andare allo stadio. Il ruolo di portiere mi ha lasciato un insegnamento unico: sei solo tra i pali, ogni errore pesa più delle grandi parate. Questa mentalità mi accompagna ancora oggi, nella radio come nella vita di tutti i giorni».
Capitolo Milan, quali i primi ricordi in salsa rossonera?
«San Siro, anno 1999. Milan-Empoli, 4-0. Fu la mia prima volta allo stadio con mio padre e mio fratello. A colpirmi fu l’atmosfera: la Lazio veniva fermata dalla Fiorentina e San Siro esultava come se avesse segnato il Milan».
Milan, gioie e dolori…
«Da Manchester ad Istanbul. La rimonta del Liverpool è forse il momento più doloroso da tifoso. A dodici anni ho avuto la fortuna di giocare a San Siro con la maglia del Milan. Subìi tre gol sotto la curva sud, ma poter calcare quel campo è stato un sogno che custodisco nel cuore».
La vita da portiere si interrompe presto. Non per scelta, però…
«Sì, direi all’improvviso. Presi una botta alla testa durante un allenamento e fui portato in ospedale. Il responso della risonanza magnetica era tremendo: occlusione di un’arteria del cervello. Per i medici dovevo smettere immediatamente. Una scelta dolorosa, ma inevitabile».
Come l’hai superata?
«Ho scelto di viverla con filosofia. Quella porta che si è chiusa mi ha permesso di aprire una finestra enorme su un altro mondo, quello della comunicazione, che mi affascinava fin da bambino. Col senno di poi, quel «puntino nero» è diventato il trampolino che mi ha portato alla vita che ho oggi, una vita che amo e che non avrei mai immaginato allora».
Locarno e Lugano, piazze speciali. Che ricordi hai delle esperienze al Lido e a Cornaredo?
«Cornaredo è sempre stato un tempio. Lo vedevo come un paradiso terrestre da ragazzo. L’ho sempre bramato e sognato, quasi più del Maracanã. Giocare a Lugano era il mio sogno più grande».
Ci riesci, ma con un’altra maglia
«Quella del Locarno, dove ho vissuto alcune delle emozioni più forti della mia carriera. Grazie alla fiducia di Bordoli e Dormiente, diventai titolare di quella squadra e in quell’anno le sfide contro i bianconeri restano indelebili. All’andata pareggiammo 2-2, ma coronai il sogno di giocare a Cornaredo da professionista».
Tuo fratello Christian segna a valanga con il Cademario…
«È diventato bravo anche perché da ragazzino si allenava con me al campetto di Bosco Luganese (ride,ndr). Io ero già bravino in porta e per lui segnare non era facile. Dai, diciamo che qualche merito ce l’ho anche io. Fu lui a regalarmi i primi guanti di Philipp Walker. Il bomber di famiglia è lui, ma un pezzettino di quel talento viene dalle sfide infinite da bambini».
Avete sempre gioito uno per l’altro?
«La nostra complicità è sempre stata la cosa più bella. Tra noi c’è sempre stato grande rispetto reciproco. Mi sono accorto di quanto mio fratello mi volesse bene non tanto nei momenti difficili, ma in quelli belli: credo che il vero affetto si veda quando una persona è felice per te, senza invidia. Ricordo la sua gioia sincera il giorno della mia convocazione in Nazionale: nei suoi occhi non c’era gelosia, ma solo orgoglio. Questo, per me, vale più di ogni gol o parata».
Dicci la verità: ha mai bussato la voglia di tornare a giocare?
«Certo, non sparisce mai del tutto. Ma ogni cosa ha il suo tempo e il mio percorso si è concluso al momento giusto. A livello regionale mi hanno cercato in tanti, ma ho sempre detto di no senza esitazioni. Quello che mi manca non è tanto il gioco, ma le sensazioni che lo circondano. Oggi preferisco vivere il calcio da un’altra prospettiva, con la stessa passione ma senza scendere più in campo. E se proprio devo giocare, scelgo il padel: almeno lì, quando la palla ti supera, hai sempre un muro che ti para».