“A Bellinzona sarei rimasto per sempre”

LIONE (dal nostro inviato Tarcisio Bullo) - In Francia lo ricordano come una meteorite, apparsa d'improvviso nel cielo del football transalpino e dissoltasi un po' com'era venuta, in maniera del tutto inattesa.
Noi Philippe Fargeon invece non ce lo scorderemo mai: i suoi guizzi, le sue serpentine, il suo fiuto del gol hanno fatto vibrare il Comunale di Bellinzona, anche se soltanto per una stagione e mezza, nella seconda metà degli anni Ottanta. Eppoi siamo un piccolo paese e come tale siamo orgogliosi che un calciatore arrivato qui con lo statuto di sconosciuto, nel giro di un anno e mezzo sia salito in rampa di lancio fino a diventare, nel 1987, uno dei migliori attaccanti francesi e a guadagnarsi la convocazione in Nazionale. Rapida e illusoria, ma con picchi di notorietà e rendimento altissimi, la carriera di «Fifi» è partita da Bellinzona, una realtà che lui, stabilitosi definitivamente in un sobborgo di Bordeaux, ricorda volentieri, anche perché in Ticino ci vive suo figlio.
Puoi dirci quali ricordi della nostra terra sono rimasti nel tuo cuore, Philippe?
«Ho avuto due momenti ticinesi, uno a Bellinzona e l'altro a Chiasso. Il secondo è durato poco e mi spiace, ma è vero che quando sono arrivato a Bellinzona, venivo da Auxerre su chiamata di Peter Pazmandy, ho vissuto davvero dei momenti straordinari e posso dire che la mia carriera è decollata dal Comunale, anche se ho imparato a giocare a calcio nel Carouge, dato che sono cresciuto nell'Alta Savoia, a due passi dal confine con la Svizzera».
Ripercorriamo un po' il tuo arrivo nella Capitale. Ti chiama Pazmandy: che rapporto c'era tra di voi?
«Nessuno. Che volevo partire da Auxerre, dove le cose non erano andate come speravo, l'aveva saputo Jean-Claude Milani, allora era portiere a Losanna. È stato lui a segnalarlo a Pazmandy».
A Bellinzona hai vissuto una stagione culminata con la promozione e poi un girone di andata in LNA con i vari Paulo Cesar, Mario Sergio e tanti ticinesi. C'era come una magia che avvolgeva il Comunale in quei tempi...
«Riuscivamo a portare allo stadio 15 mila persone: una cosa enorme per una piccola città come Bellinzona. A me piaceva molto vivere lì, c'era un ambiente famigliare e il calcio era tutto. Mi ricordo che dal lunedì al mercoledì si parlava solo della partita che avevamo giocato nel fine settimana e da giovedì si cominciava a discutere di quella che sarebbe arrivata».
Non ti è spiaciuto un po' lasciare quell'ambiente, abbracciare un'avventura che in quel momento aveva anche molte incognite?
«Certo che mi è dispiaciuto andare via da Bellinzona, ma non sono stato io a volerlo. C'era questa offerta del Bordeaux e la società mi disse che dovevo accettare, perché per loro era un affare, ma io in quel momento pensavo che a Bellinzona sarei potuto rimanere per sempre».
Come avvenne il trasferimento?
«È avvenuto tutto in modo molto rapido. Era il dicembre del 1986 e il direttore sportivo del Bordeaux, Didier Couécou, venne in Ticino. Quando mi telefonò da Lugano per fissare un appuntamento, ricordo perfettamente che mi trovavo a pranzo, a casa mia, con Paulo Cesar. Couécou disse che avremmo dovuto vederci subito, ma risposi che non potevo: avevo questo impegno, ci saremmo visti la sera. Il brasiliano mi consigliò di non lasciarmi scappare quell'opportunità e finii per accettare».
Non fu una scelta sbagliata.
«Il Bordeaux era una grande squadra: la allenava Aimé Jacquet, che più tardi portò la Francia al titolo mondiale, e vi giocavano campioni come Giresse, Tigana e Battiston, reduci dal Mondiale. Io ero francese, in fondo orgoglioso di giocare per quella grande società. Sono arrivato, sono stato promosso titolare, ho segnato e non sono più uscito».
E poi arrivò anche la nazionale.
«Quell'anno col Bordeaux vincemmo titolo e coppa, io segnai molto, anche nella finale. Fu un momento storico: la doppietta i bordolesi non l'hanno mai più fatta e anche per questo qui tutti mi riconoscono ancora quando esco per strada. La nazionale fu una conseguenza di tutto quello».
Ed ora la domanda difficile: come mai «Fifi» Fargeon non riuscì a ballare a quel livello più di un anno, il 1987?
«Perché stare così in alto è molto complicato e forse io ho commesso l'errore di accettare l'offerta del Servette. Non volevano lasciarmi partire, ma la società aveva preso due attaccanti che giocavano in nazionale e mi disse che sarei stato solo una terza scelta. La cosa non mi andava e ho lasciato il club, ma tre mesi dopo la società fece di tutto per riprendermi, solo che avevo giocato in Europa col Servette e non potevo più trasferirmi. Non rimpiango nulla: la vita a volte va così e in quel momento volevo stare vicino a mia mamma che era malata. Non ho mai pianificato la mia carriera, sono andato dove dovevo andare».
Svizzera e Italia sono state eliminate ai rigori in questo Europeo e tu hai un rapporto speciale coi rigori: in semifinale di Coppa delle coppe contro il Lokomotiv Lipsia, nel 1987 ti rifiutasti di calciare. Come andò?
«Non ho mai tirato un rigore in vita mia. Sono sempre stato un attaccante intuitivo, quando riflettevo sbagliavo. Stare davanti al portiere pensando di dover piazzare il tiro... No, impossibile. Contro il Lipsia dopo cinque rigori eravamo in parità e bisognava scegliere il prossimo tiratore. Mi tirai indietro e Jacquet chiese allora a Zlatko Vujovic, che aveva esperienza - era un nazionale della Jugoslavia - di tirare. Anche lui rifiutò e così toccò al suo gemello, che si fece parare il tiro».
Un brutto ricordo?
«Sì. Ripensandoci sono arrivato alla conclusione che è più difficile non accettare di assumere una responsabilità che fare il contrario e sbagliare. È stata una lezione di vita, che applico tuttora quando sono confrontato con certe decisioni».
È difficile giocare con addosso la maglia della Francia?
«Molto. La prima volta che sono sceso in campo dopo venti minuti volevo uscire: andavano tutti come pazzi, non ce la facevo. C'è sempre una grande pressione, ma avere addosso la maglia col galletto cucito sul cuore ti dà emozioni intense».
Vincerà l'Europeo la squadra di Deschamps?
«Abbiamo una bella nazionale e possiamo arrivare in fondo, ma la Germania è un osso duro. Ci guida però un grande allenatore: Deschamps è un valore sicuro, sa quello che vuole e come ottenerlo. Ho giocato due anni con lui: a vent'anni ragionava come un trentenne ed era sicuro di fare sempre tutto giusto».