L’intervista

«A quei tempi Cornaredo sembrava Buenos Aires»

Sergio Bastida, ex centrocampista di Zurigo e Lugano, ripercorre la sua carriera in vista della sfida di domenica al Letzigrund
Sergio Bastida (al centro) esulta dopo un gol firmato al Servette. È il 3 dicembre del 2000. (Foto Keystone)
Marcello Pelizzari
13.12.2018 16:32

Sergio Bastida oggi ha 39 anni. E molte storie da raccontare. La Bolivia, l’Argentina, l’approdo in Europa ad appena diciassette anni, il Lugano, lo Zurigo e poi ancora tante squadre e tanto calcio. «Oggi curo gli affari di famiglia» racconta l’ex centrocampista dall’altra parte del telefono. «Vent’anni fa mio padre acquistò dei terreni in Argentina. E allora da un po’ di tempo a questa parte faccio la spola fra il Sudamerica e la Svizzera, dove sono rimasto a vivere una volta appese le scarpe al chiodo». È l’inizio di un lungo viaggio fra i ricordi.

Sergio, prendiamo spunto dal presente per parlare del passato. Domenica il Lugano sfiderà lo Zurigo al Letzigrund. Quella in bianconero fu la sua prima, vera esperienza nel grande calcio. Che ricordi ha?

«Lo dico con la mano sul cuore: il Ticino è stato uno snodo fondamentale per la mia carriera. Senza il Lugano infatti non ci sarebbe stato Sergio Bastida. Nessuno si sarebbe accorto di me. A Cornaredo stavo bene di fisico e testa: amavo quello spogliatoio e amavo il club».

I bianconeri allora erano un piccolo Sudamerica. Impossibile avere nostalgia di casa, vero?

«Impossibile, concordo. Davvero, era tutto perfetto. Ricordo Gimenez e Rossi. Mi aiutarono tantissimo i primi mesi. Se fossi andato subito in una cosiddetta big non mi sarei trovato così bene. Invece a Lugano si respirava aria di famiglia».

La sua prima avventura in Europa però fu in Repubblica Ceca, dal 1997 al 1999. Una destinazione strana per un argentino. Può dirci come andò?

«Fece tutto mio papà Luis. All’epoca giocavo nelle riserve dell’Huracan, a Buenos Aires. Mi allenavo già con la prima squadra. In Argentina però stava cominciando la crisi. Tant’è che il club aveva grossi problemi economici e non riusciva a versare regolarmente gli stipendi. Papà, stufo della situazione, riallacciò alcuni contatti e trovò questa opportunità in Repubblica Ceca. Diciamo che andai là per farmi le ossa. Ma fu durissima. Faceva freddo, in tutti i sensi. Io avevo diciassette anni e all’inizio ero solissimo. La mia famiglia mi raggiunse in un secondo momento, ma quell’avventura non migliorò».

E il Lugano, come si è accorto di lei?

«Anche qui c’è lo zampino del mio vecchio. Nel 1999 i bianconeri erano allenati da Enzo Trossero. Mio padre lo conosceva bene e spinse affinché il mister mi visionasse. Il provino andò bene. Mi venne subito offerto un contratto».

Lo chiediamo a tutti i giocatori di quella squadra: quanto pesa, oggi, il mancato titolo del 2001?

«Personalmente tantissimo. È un pensiero che cerco di allontanare. Eppure è sempre lì, nella mia testa. Penso sia così per tutti i miei ex compagni. Quella primavera arrivammo a 99, ma per una serie di motivi non riuscimmo a fare il passo verso il 100. Eppure ogni singolo elemento diede il massimo. Sì, non aver vinto il campionato brucia ancora».

I luganesi ad ogni modo ricordano con affetto e nostalgia l’entusiasmo e la follia sportiva che accompagnarono le vostre partite.

«Fu un periodo eccezionale. E il merito va dato al gruppo. Noi giocatori riuscimmo a trascinare e a coinvolgere una città intera. La gente rispose in maniera incredibile. Mancò, appunto, l’ultimo scalino».

Il titolo mancato nel 2001? Brucia tantissimo. È un pensiero che cerco di allontanare. Eppure è sempre lì, nella mia testa. Penso sia così per tutti i miei ex compagni. Quella primavera arrivammo a 99, ma per una serie di motivi non riuscimmo a fare il passo verso il 100. Eppure ogni singolo elemento diede il massimo

Domanda scontata: perché?

«Fra squalifiche e infortuni, nei momenti clou ci trovammo con la coperta corta. E così lasciammo per strada punti pesanti».

Abbiamo parlato di Enzo Trossero. Parliamo ora di un altro allenatore: il compianto Roberto Morinini. Cosa ha rappresentato per lei?

«Trossero se ne andò via poco prima che iniziassimo il campionato. Al suo posto arrivò Sonzogni. Quindi il duo Gatti-Ortelli e infine mister Morinini. A lui devo soprattutto una cosa: la posizione in campo. Arrivai in Ticino come trequartista, ma Roberto non mi vedeva a fare il dieci dietro le punte. Mi fece indietreggiare di qualche metro, trasformandomi in centrocampista. Mantenni quel ruolo per il resto della mia carriera».

Ecco, veniamo al dopo Lugano. A Zurigo il vero Bastida si vide raramente. Come mai?

«Ero felice. Quantomeno all’inizio. Avevo firmato per una delle migliori formazioni del campionato. I risultati però non arrivarono. Continuavamo a perdere o pareggiare. Era frustrante. Lo spogliatoio non era affatto unito. Poi ci fu l’infortunio al ginocchio, che di fatto segnò la fine della mia avventura al Letzigrund. A dirla tutta, il Bastida di Zurigo si rivelò un lontano parente del giocatore che fece molto bene a Lugano».

Da avversario il Lugano lo ha affrontato diverse volte, anche sul finire della sua carriera con le maglie di Wil e Wohlen. Era strano sfidare i bianconeri?

«Un pochino, sì. Ma quando giocavo a Wil o a Wohlen erano già passati diversi anni rispetto alla mia parentesi a Cornaredo. In un certo senso ci avevo fatto l’abitudine. Una cosa posso dirla, ad ogni modo: ai tempi dell’Aarau mi proposi al Lugano. Volevo tornare in Ticino. Per un motivo o per l’altro però l’affare non andò mai in porto».

Come reagì di fronte al fallimento del Lugano nel 2003? E che effetto le fa, oggi, vedere i bianconeri in Super League?

«Il fallimento mi fece male. Anche perché era ancora fresca nella memoria della gente la nostra cavalcata del 2001. Per contro, festeggiai come un matto la promozione in Super League di qualche anno fa. Il posto dei bianconeri è lassù, assieme alle migliori squadre del Paese. Forse a Lugano manca il calore dei vecchi tempi. Ma la società attuale sta lavorando egregiamente e merita ogni bene».

Torniamo a Zurigo, dove lei ha lavorato come allenatore nella Under 16. Ludovic Magnin così a suo agio in panchina è una sorpresa per lei oppure se l’aspettava?

«Me l’aspettavo. E sono contentissimo per Ludo, un amico vero. Capii che aveva la stoffa quando eravamo nell’Academy dello Zurigo: io ero all’Under 16, lui guidava la Under 18. Eravamo sempre assieme e gli dicevo spesso: tu farai strada come allenatore. L’aspetto che forse mi ha sorpreso è la velocità. Pensavo avesse bisogno di qualche passaggio in più prima di approdare in Super League. Invece no. Si è calato subito nella parte».

Ludovic Magnin in panchina non è una sorpresa. Me l’aspettavo. E sono contentissimo per lui. Capii che aveva la stoffa quando eravamo nell’Academy dello Zurigo: io ero all’Under 16, lui guidava la Under 18. Eravamo sempre assieme e gli dicevo spesso: tu farai strada come allenatore

Quando lei arrivò in Svizzera i campionati erano più aperti e combattuti. Ora, dopo l’egemonia del Basilea stiamo assistendo al dominio dello Young Boys. Da spettatore le piace la Super League?

«Un campionato con una squadra nettamente più forte è triste. Va da sé. Ho appena visto l’YB in Champions contro la Juventus: per la Super League i gialloneri sono di un altro pianeta. Ma, appunto, è un peccato. Sarebbe bello se il Basilea tornasse quello di un tempo e se nel frattempo si aggiungesse anche lo Zurigo».

Ad inizio intervista ha citato più volte suo padre, Luis Fernando Bastida, pure lui calciatore. Lo chiamavano «Zorro» ed era fortissimo. Può descrivercelo?

«Sono nato in Bolivia per colpa sua (ride, ndr). Giocò a lungo lì. Ancora oggi è amatissimo dai tifosi dello Strongest ma militò pure nel Bolivar. Era un attaccante. Vestì anche le maglie di Boca Juniors in Argentina, Atletico Terman in Perù e Olimpia in Paraguay. Purtroppo fu costretto a smettere attorno ai trent’anni. Si fratturò tibia e perone, i medici allora non erano il massimo e lui cercò di rientrare prima del previsto peggiorando la sua situazione».

Quindi domenica, nella finale di Copa Libertadores, tifava Boca?

«Sì, ero pro Boca. Da piccolo andavo spesso alla Bombonera di Buenos Aires. Ma seguivo poco le partite: lo spettacolo sugli spalti mi rapiva ogni volta. Qualcosa di pazzesco. Peccato per la Copa. Ma il River ha meritato».

A proposito di River: a Lugano nessuno (o quasi) si ricordava che l’attuale vice allenatore dei «Millonarios», Matias Biscay, giocò mezza stagione a Cornaredo.

«Io me lo ricordo bene. Arrivai verso maggio, lui e Mario Conti stavano per chiudere la loro parentesi in Ticino. Quel periodo a Lugano c’erano un sacco di argentini e in generale sudamericani. Pareva di stare a Buenos Aires».