L’intervista

Arrigo Sacchi: «Il mattino dell’Italia ha intenti nobili»

La rinascita degli Azzurri secondo il profeta di Fusignano, fra lampi di calcio propositivo e difficoltà nell’abbandonare la vecchia mentalità catenacciara
Arrigo Sacchi ha guidato l’Italia dal 1991 al 1996, arrivando a disputare la finale dei Mondiali nel 1994. (Foto Archivio CdT)
Marcello Pelizzari
14.06.2019 06:00

Trent’anni fa, al Camp Nou di Barcellona, alzò al cielo la sua prima Coppa dei Campioni. Con il Milan targato Silvio Berlusconi ne conquistò una seconda l’anno successivo. In rossonero vinse tutto, salendo addirittura sul tetto del mondo due volte. Arrigo Sacchi oggi ha 73 anni ma è ancora il profeta di un tempo. Di più, segue con occhio critico e attento le vicende calcistiche italiane. Lo abbiamo intervistato per capire se davvero gli Azzurri sono rinati.

Signor Sacchi, domanda secca per iniziare: un anno dopo il Mondiale russo è troppo presto per parlare di «rinascimento italiano»?

«È presto e allo stesso tempo non lo è. Ci sono i risultati, penso anche a quanto mostrato dalla nazionale femminile, ma c’è soprattutto la proposta. È evidente l’atteggiamento audace, coraggioso, ma direi pure ottimistico e offensivo di cui è portavoce la squadra di Mancini. E lo stesso vale per le selezioni giovanili. È una buona cosa, perché l’ottimismo in campo ti dà autostima. Il possesso della palla gratifica, migliora. È sempre meglio dominare il gioco che non dominarlo. Detto ciò, siamo solo all’inizio. Specie a livello di rappresentativa maggiore. Ci sono ancora troppi stranieri in Serie A, ma se il buongiorno si vede dal mattino direi che questo mattino ha degli intenti nobili».

Lei allenò l’Italia dall’ottobre del 1991 al novembre del 1996, riuscendo solo in parte a replicare il calcio che faceva al Milan. Perché, poi, i dirigenti federali puntarono nuovamente su allenatori meno coraggiosi e più catenacciari?

«L’Italia è un Paese piuttosto refrattario ai cambiamenti. Dopo di me ci fu una sorta di ritorno al passato, è vero. Però ci fu anche la vittoria del Mondiale nel 2006 e sappiamo quanto sia importante, per noi italiani, vincere. È il solo termine di paragone, altro che merito o bellezza».

Fra il 2010 e il 2014, invece, lei è stato il coordinatore delle selezioni giovanili italiane. Selezioni che, nel frattempo, stanno ottenendo risultati di prestigio: la U17 è arrivata in finale agli Europei, la U20 in semifinale ai Mondiali e la U21 affronterà l’Euro casalingo con il ruolo di favorita. E parliamo solo del 2019. Significa che il suo messaggio è rimasto?

«Dovreste chiederlo a chi è ancora lì, ma le selezioni giovanili non sono mai state un problema. Sono sempre state molto competitive. Imboccammo una strada interessante già nel 2010, dopo il fiasco ai Mondiali sudafricani. Una strada che definirei nostra: non è vero che l’Italia ha copiato le altre nazioni. Copiare non ti fa progredire. Serve la conoscenza».

Questi giovani troveranno minuti veri in Serie A e, di riflesso, sapranno imporsi nella nazionale maggiore?

«Se il massimo campionato cambierà mentalità sì, altrimenti se continuerà a privilegiare le difese sarà più difficile. Se la Serie A cercherà maggiormente un calcio offensivo, allora i ragazzi troveranno spazio grazie al loro entusiasmo».

In realtà, qualcosa si sta muovendo. In Italia ci sono almeno cinque-sei tecnici che interpretano il ruolo nella maniera corretta. Si vedono come dei direttori di orchestra, come degli sceneggiatori di un film

A proposito di Serie A: lei ha più volte criticato l’atteggiamento di Max Allegri e della Juventus. Agli allenatori di oggi manca il coraggio di Sacchi?

«In realtà, qualcosa si sta muovendo. In Italia ci sono almeno cinque-sei tecnici che interpretano il ruolo nella maniera corretta. Si vedono come dei direttori di orchestra, come degli sceneggiatori di un film. Sono degli strateghi: hanno in testa un obiettivo e cercano di raggiungerlo con un metodo preciso».

È possibile far coesistere il cosiddetto calcio all’italiana e il calcio futurista di Arrigo Sacchi?

«È quello che ho sempre fatto. Con ogni mia squadra: dal Fusignano all’Italia, passando per il Milan. Mi criticavano per la difesa a zona, ma ad esempio io ai miei uomini in area dicevo sempre di stare sull’uomo».

Lei può dirlo: quanto è difficile fare il commissario tecnico dell’Italia?

«Beh, manca tempo. In più, rispetto ad altre nazioni l’Italia non ha uno stile. Gli Azzurri sono come le nostre città: c’è il palazzo del 1300 ben conservato, ma poi accanto c’è un edificio moderno messo lì senza un motivo. Ci manca, diciamo, un vero piano urbanistico. Se uno allena la Spagna sa che la scuola è quella, idem per il Portogallo, l’Olanda e la Germania».

Si può dire, quindi, che gli italiani per troppo tempo hanno pensato soltanto a distruggere gli stili altrui?

«Sì. Se rompi impari di meno, se costruisci puoi crescere. C’è una grande differenza, anche a livello psicologico. Passare il tempo a impedire agli altri di segnare è stancante. Attraverso il gioco, invece, migliori le tue idee e acquisisci parecchia fiducia. Ecco, oggi l’Italia di Mancini non rompe. Costruisce».

Anni fa, era il 29 aprile del 2013, lei fu ospite del Team Ticino assieme a Devis Mangia allora allenatore della Under 21 italiana. Perché vi interessava così tanto il calcio svizzero?

«Prima dicevo che non bisogna copiare dagli altri. Ma da ognuno puoi imparare qualcosa e questo ha spinto l’Italia, negli ultimi anni, ad aprirsi di più. C’è un dialogo costante fra le varie scuole calcistiche. Ad esempio l’Inghilterra, prima di mettere in piedi la sua struttura, è venuta da noi. E questo perché, come spiegavo, con le selezioni giovanili dal 2010 in avanti ci siamo comportati bene».

A Tenero cosa imparaste?

«C’era un problema con la Svizzera: le selezioni più piccoline, la Under 15 e la Under 16, ci battevano sempre. Ripeto: sempre. Non capivamo perché e così ci recammo in Ticino per studiare i metodi e la filosofia degli elvetici. La risposta era lì, sotto i nostri occhi. In Svizzera le selezioni giovanili organizzano, durante l’anno, svariati raduni. Noi, all’epoca, chiamavamo i ragazzi della Under 16 il giorno prima della partita. All’indomani del match li rimandavamo indietro ai rispettivi club. Troppo poco. Una Under 16 svizzera arrivava in campo forte di duecento ore di allenamenti all’anno, i nostri numeri erano minimi. Chiaro che poi non ci fosse mai partita fra noi e loro».

La grande Italia a lezione dalla piccola Svizzera: il mondo al contrario?

«Capisco che faccia effetto. In fondo, in Italia ci sono 60 milioni di abitanti e la Svizzera è più piccola della Lombardia. Ma uno deve imparare e tutti possono essere utili alla causa. Non solo, quando hai in mano una squadra o un progetto devi sempre tenerti aggiornato. Al Milan avevo un mio uomo di fiducia. Faceva il giro del mondo non so quante volte all’anno e studiava cosa facevano le altre realtà».