Carlos Varela, il Servette e una Ginevra resuscitata

Più di tredicimila biglietti sono andati in fumo in prevendita. Per i ginevrini è la partita dell’anno. Servette contro Losanna. Roba da leccarsi i baffi. «Potrebbe essere la nostra notte» dice Carlos Varela, 41 anni. Usa il condizionale, l’ex granata. Ma la promozione della squadra di Alain Geiger oramai è cosa fatta: addirittura, sarà festa grande già dopo il derby in caso di vittoria o pareggio. «Ho vissuto momenti del genere a Ginevra e so cosa si prova. Ricordo il titolo del 1999, anche se andai via a metà torneo, e lo spareggio per salire del 2011, quando mandammo in Challenge il Bellinzona. Eppure, in città l’euforia non è totale».
In che senso?
«Il Servette ha tifosi esigenti. Una semplice promozione non basta a soddisfare la loro sete. Vogliono e sognano una squadra ai vertici della Super League. Certo, a inizio stagione nessuno si aspettava un dominio così netto. Credevamo un po’ tutti che il Losanna, anche per questioni di budget, avrebbe fatto la differenza. L’entusiasmo della piazza si sente, tuttavia non penso assisteremo a scene folli o festeggiamenti memorabili. Lo stesso vale per il club: bisogna già preparare il futuro».
Appunto, lei nel 2011 giocava nel Servette mentre ora ricopre il ruolo di osservatore allo Stade de Genève. Differenze fra la proprietà di allora e quella attuale?
«Prima c’era una persona sola, che iniettava soldi strani nel club. Ora c’è una società vera, solida, con una fitta rete di contatti e di sponsor. C’è anche un lavoro con il settore giovanile. Prima, beh, il Servette sembrava una squadra francese. Era slegata al contesto cittadino. Adesso il club è tornato ad essere parte del territorio».
Varela, Pizzinat, il tecnico Alain Geiger, Lombardo: quanto conta avere ex calciatori del Servette nei ruoli chiave del club?
«Molto, perché siamo la memoria del Servette. Io, che mi occupo di scoprire e valutare possibili nuovi acquisti, sono facilitato nel mio lavoro proprio perché conosco la mentalità dei ginevrini e conosco il club. Quindi so capire al volo se un giocatore fa al caso nostro. La gente voleva rivedere un Servette animato da persone competenti e, direi, innamorate».
Il Servette tornerà davvero ai fasti di un tempo?
«Stiamo crescendo. Come club e come squadra. C’è stato un vero e proprio boom negli ultimi due anni e mezzo. Prima, era come se non ci fossimo. Andavi a parlare con un ragazzo del Basilea o dello Young Boys e neppure prendeva in considerazione l’idea di venire a Ginevra. Preferiva Sciaffusa o Rapperswil. Assurdo, dato che noi siamo la terza società più titolata del Paese. In generale, ora siamo un bel cocktail: abbiamo la voglia di giocare a pallone tipicamente romanda e una mentalità votata al lavoro, diciamo tedesca».

E il lavoro di Varela, com’è?
«Sono fortunato: tanti avversari o compagni della mia epoca, oggi, sono allenatori, direttori sportivi o comunque dirigenti. Ovunque vada trovo porte aperte e molta professionalità. Lavoro a stretto contatto con Geiger, l’allenatore, e con il capo degli osservatori, l’ex Lione Gerard Bonneau. Insieme valutiamo cosa abbiamo e cosa ci manca. Mi sento anche una sorta di ambasciatore. Quando parlo con un nostro obiettivo, mostro sempre la storia e le conquiste del Servette. È un dettaglio, ma lascia il segno».
Nel valutare un giocatore lei usa un approccio, diciamo, istintivo o si basa su criteri oggettivi come numeri e statistiche?
«Non dovrei dirlo, ma io odio le statistiche. Sono fredde, slegate al contesto. Se un attaccante mi fa 15 gol in una determinata squadra, significa che ne farà altrettanti o di più al Servette? Io, innanzitutto, devo vedere qualcuno con i miei occhi. Poi parlarci assieme. Se un possibile obiettivo in due ore di chiacchierata parla quasi solo di soldi, beh, lascio perdere».


C’è un Varela nel Servette di oggi?
«Se cercate un carattere scontroso e pazzo dico di no (ride, ndr). Mi rivedo in Stevanovic sul piano tecnico, ma per grinta e determinazione cito Routis, Cognat, Schalk. Gente che quando serve prende per mano gli altri e dice loro cosa fare. Dovremmo avere più calciatori di questo tipo. A mio avviso il Servette è ancora troppo gentile».
Significa che soffrirà in Super?
«È da pazzi credere che il Servette di oggi vada già bene per giocare lassù, con le migliori del Paese. È vero, la Super League non è più quella di dieci anni fa. Il livello è calato. Ma fra la A e la Challenge c’è ancora un abisso. Ritmo, tattica, errori. Sono due mondi diversi e la Coppa lo dimostra».
Non abbiamo ancora parlato di Alain Geiger, il mister che sta riportando in A il Servette. Qual è il suo giudizio?
«Kodro, il suo predecessore, era un professionista esemplare. Il classico perfezionista. Studiava ogni possibile uscita palla al piede dalla difesa, per dirne una. Ma la squadra, per colpa di questa cosa, era bloccata. Geiger al contrario pratica un calcio basico, da ABC. E lascia molta responsabilità ai giocatori. Ha ridato fiducia al gruppo, ecco. Rispetto ad altri allenatori non ha il tipico atteggiamento scontroso, anzi. È gentile e disponibile con tutti. Ed è lontanissimo dal luogo comune secondo cui a Ginevra si pensa solo a soldi, belle auto e vestiti. Lui, quando va al ristorante stellato, indossa i jeans. Al suo arrivo i tifosi erano scettici. Ma avevo lavorato con Alain ad Aarau, sapevo cosa avrebbe potuto dare».
Chiudiamo con il settore giovanile, vero fiore all’occhiello del Servette. È la vostra polizza per il futuro?
«La nostra regione è ricca di talenti. Una questione di origini, anche, fra italiani, portoghesi, spagnoli, balcanici e africani. Poi c’è il lavoro alle spalle, sì, ma trattenere i migliori giovani è una sfida complicata. Pep Guardiola ad esempio è venuto di persona a prendersi un nostro giocatore. Dopo i problemi del passato, anche economici, il Servette adesso ha di nuovo un nome e una struttura. Ma devi anche stare al passo con i tempi e così, noi, abbiamo deciso di offrire contratti già ai quattordicenni. È un modo per dimostrare la nostra serietà e, tornando a Guardiola, proteggerci».