L’anniversario

C’era una volta a Lugano Mauro Galvao

Il leader della nazionale brasiliana sbarcò a Cornaredo fra lo stupore generale direttamente dal Mondiale italiano: era l’estate del 1990 - «Il telefono di casa squillò, dall’altra parte c’era un agente che mi propose una squadra chiamata Lugano» ricorda oggi l’ex difensore
Mauro Galvao, oggi 58 anni, nella magica notte di San Siro. © CdT/Gabriele Putzu

«Ma come, sono passati già 30 anni?». Mauro Geraldo Galvao stenta a crederci. «Mamma mia che roba» ribatte subito, non appena gli confermiamo che sì, i bianconeri lo misero sotto contratto proprio nel 1990, sull’onda del Mondiale. Un colpo assurdo, pazzesco, eccezionale. Unico. È come se, oggi, Angelo Renzetti dal suo cilindro pescasse Thiago Silva o Marquinhos. Impossibile. «Il calcio allora era diverso» dice il brasiliano, 58 anni e il cuore diviso a metà: un po’ ticinese e un po’ verdeoro.

«All’epoca, in Europa, una squadra non poteva avere più di due, tre stranieri» prosegue Galvao. «Un sudamericano non aveva così tanti sbocchi, almeno non come oggi. Dopo il Mondiale, sfortunato per noi brasiliani, tornai a casa mia. Il mio contratto con il Botafogo era scaduto. Di più, sentivo di avere chiuso un ciclo con quel club e di dover ripartire da un’altra parte. L’estero, per me, era l’opzione numero uno. Era anche il momento giusto per partire. Arrivai a Lugano un po’ per caso, ma la città e la gente mi piacquero subito. Tant’è che il Ticino diventò davvero una seconda casa».

«Non tornai neppure a casa»

Galvao si innamorò del posto e la dirigenza bianconera non si fece pregare: «Mi diedero una penna, firmai e così iniziò la mia avventura a Lugano» le parole di Mauro. Il quale poi aggiunge: «Addirittura, non mi fecero tornare in Brasile per recuperare la mia famiglia. Non so, forse avevano paura che non sarei più tornato. In realtà, dovevamo già giocare il campionato e così non ebbi neppure il tempo di rientrare per qualche giorno a Rio».

Il Lugano, dicevamo, mise a segno un colpo eccezionale. Vincendo la concorrenza di molte squadre europee. Del resto, Galvao veniva da due Mondiali e un’Olimpiade con il Brasile. Era titolare nel 1990 e, un anno prima, conquistò la Copa America. Hai detto poco. «Ero in trattativa anche con il Montpellier, in Francia. Ma non se ne fece nulla, le cose non andarono oltre qualche chiacchierata. C’erano anche altri club interessati. Alla fine, però, il Lugano si dimostrò il più bravo».

«Porto gli amici nel cuore»

Una carriera da fenomeno in patria, svariate presenze con i verdeoro, Galvao si ritrovò dall’oggi al domani in Ticino, nella provincia dell’impero calcistico, lontano dalle luci della ribalta. «Ma il calcio non cambia, resta calcio» spiega il diretto interessato. «Uno va in campo per vincere, sempre e comunque. Mi adattai bene al campionato svizzero. E poi il Lugano non era una piccola, al contrario: nei miei sei anni di permanenza giocammo due finali di Coppa, vincendone una, mentre sfidammo Real Madrid e Inter in Europa. Con la famosa vittoria di San Siro che eliminò i nerazzurri. Ad essere sincero, all’inizio dissi: bene, gioco un po’ qui e poi cambio. Ma ero a mio agio, la famiglia si trovò benissimo. E quindi rimasi a lungo».

Galvao, poi, imparò molto. «Venivo da una scuola diversa, meno tattica. Il calcio, da voi, è più veloce mentre in Brasile è ancora oggi molto lento. Quanti palloni alti, inoltre. Ma, in generale, quanti ricordi. Nel 2018, quando tornai per i 110 anni del Lugano, fu bellissimo riabbracciare i vecchi amici e compagni. Edo Carrasco, Morf, Walker, Penzavalli e gli altri. Tanti, tornando in Brasile, li ho persi di vista. Ma sono qui, con me, nel cuore. Sempre».

Philipp Walker inginocchiato a San Siro assieme a Bugnard e Gentizon. Alle loro spalle Galvao e Morf. ©CdT/Archivio
Philipp Walker inginocchiato a San Siro assieme a Bugnard e Gentizon. Alle loro spalle Galvao e Morf. ©CdT/Archivio

«Mi convinsero subito»

I ricordi, già. Il primo, forse il più importante: un telefono che squilla, poco dopo l’1-0 di Caniggia al Brasile ad Italia ‘90. «Dall’altra parte del filo c’era un agente. Mi spiegò che c’era questa squadra, in Svizzera. E che mi voleva fortemente. Io non avevo in mano nulla: chissà, se fossimo andati avanti con il Brasile la mia parabola sarebbe stata differente. Avrei giocato in Italia, forse. Invece mi ritrovai a Lugano, parlai con Helios Jermini e Francesco Manzoni. Conobbi Claudio Sulser, anche. Devo dire che furono tutti convincenti».

Il solo momento difficile, ammette Galvao, fu l’addio. Sei anni più tardi. «Fosse dipeso dalla mia famiglia, beh, non ce ne saremmo mai andati. Ma avvertivo che il mio ciclo, come nel 1990 al Botafogo, era giunto al termine. Il Lugano iniziava anche ad avere alcuni problemi finanziari, almeno quella era la mia impressione. E io avevo ancora tanta voglia di giocare e vincere. Lasciare Cornaredo, però, fu un colpo al cuore. Ero emozionato, più di quando arrivai».

Galvao parla a ruota libera. Rivive partite, momenti. Si ricorda perfino i nomi di alcuni tifosi. «Gli allenatori? I due più importanti a livello personale furono Duvillard e Engel. Il primo favorì il mio inserimento in squadra; con il secondo arrivò quella meraviglia nel 1993, la Coppa Svizzera. Del Lugano, all’epoca, apprezzavo la stabilità tecnica. I mister avevano tempo per lavorare».

«Sento spesso Renzetti»

E il campionato? Com’era agli occhi di Galvao? «Era bello. E avvincente. Gli avversari, beh, erano tosti. Ricordo Kubi, al Servette, poco prima che se ne andasse al Bologna. Era duro da marcare, aveva forza. Ma il livello in generale era alto. Mi riferisco sia agli stranieri sia ai calciatori elvetici, tant’è che la Svizzera si qualificò per USA ‘94 e Euro ‘96. All’epoca i vari Chapuisat, Sforza, Sutter venivano acquistati dai migliori club esteri. Oggi la vostra è una nazione di calcio conosciuta e apprezzata, ma già allora era messa bene».

Mauro, in ogni caso, non ha mai tagliato i ponti con la sua seconda casa. Anzi, «spesso mi sento con Angelo Renzetti e seguo sempre i risultati della squadra» afferma il grande ex. «Il calcio, in Brasile, è appena ricominciato. Ma il virus non se n’è mica andato. Circola e fa paura, soprattutto perché al sud, come a Porto Alegre dove sono nato, sta per arrivare il freddo. Il problema è stato il carnevale, un evento sentito alle nostre latitudini. Quelli di Rio e San Paolo sono i due che attirano le folle più grandi. La gente è arrivata da ogni dove e così ha favorito la diffusione dei contagi. Speriamo in bene, il mio popolo sta soffrendo».

Salutiamo Mauro Galvao con un pizzico di nostalgia. Sembra ieri. E invece dal suo arrivo a Lugano sono passati 30 anni. Il brasiliano giunse a Cornaredo direttamente dalle notti magiche italiane; seppe regalarne tante, tantissime ai tifosi bianconeri. La festa in piazza dopo la Coppa del 1993, l’1-0 di San Siro contro l’Inter solo per citare le più famose. «Mamma mia che roba». Già. Nel 1990 il film più visto al cinema fu Ghost, con Patrick Swayze e Demi Moore, ma il brasiliano fu tutto fuorché un fantasma. Scaldò i cuori della gente, fu più ticinese dei ticinesi. E in campo mostrò la strada ai suoi compagni.

Daniele Penzavalli: "Con lui entrammo in un'altra dimensione"

«Mi chiedete di Galvao? Beh, di solito in circostanze simili si scade in complimenti banali. Ma questo non è il caso Mauro. Con lui le parole di elogio assumono valore pieno». Daniele «Mec» Penzavalli conosce bene il brasiliano. In spogliatoio, in campo, come pure nella vita privata, ha condiviso tutti e sei i suoi anni in bianconero. «Galvao è nel cuore di Lugano. E Lugano ha nel cuore Galvao» sottolinea il vecchio compagno. «Portò la squadra in un’altra dimensione. Sportiva e non solo. Sì, è stato un esempio. Non solo confermando di essere un fuoriclasse, ma facendosi apprezzare come persona».

È l’estate del 1990 e Penzavalli - appena 21.enne - vede sbarcare a Cornaredo un campionissimo. «Si trattò di un’operazione di mercato stupenda. A maggior ragione per noi, giovani, che qualche straniero lo avevamo già visto passare. Nessuno però era del calibro di Galvao. Non a caso in quegli anni arrivarono dei risultati importanti. È vero, a fare la differenza fu il potenziale del collettivo. Un potenziale però che il brasiliano elevò al quadrato». A Mauro, ci racconta Penzavalli, bastò poco tempo per prendere le misure della Lega nazionale A. «Arrivava direttamente dal Mondiale italiano. Eppure non ce lo fece pesare. Anzi. S’introdusse in spogliatoio con modestia, quasi fosse un ragazzo delle giovanili. Ricordo ancora una delle prime partite in Svizzera interna. Faceva molto freddo. Inizialmente, sceso dal bus, si mise a ridere chiedendoci se si dovesse giocare davvero in quelle condizioni. Poi però sfoderò una prestazione pazzesca. Questo per dire che si calò subito nella nuova realtà, nonostante fosse reduce da una Coppa del mondo col Brasile e da partite con 50.000 spettatori».

Al suo fianco, Penzavalli visse momenti speciali. «Addirittura diventai il suo capitano. Una cosa che, a ripensarci, mi rende molto fiero. In generale la sua presenza contribuì molto alla mia carriera. Galvao non tenne il suo talento per sé, ma lo condivise con i compagni. Parliamo di un professionista, un signore e un trascinatore. Ha indossato la maglia bianconera con orgoglio e la gente lo ha amato anche per questo».