Dossena: «Un abbraccio che racchiude una miriade di emozioni»

L’abbraccio colmo di emozioni e lacrime tra Roberto Mancini e Gianluca Vialli, al termine della finalissima di Wembley, è destinato a diventare l’immagine più iconica del trionfo europeo della selezione azzurra. Un gesto sentito, che vale più di mille parole: «È stato spontaneo e sincero» rileva «Beppe» Dossena, ex compagno di squadra dei gemelli del gol nella grande Sampdoria protagonista a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, nonché in nazionale. «Dietro quell’abbraccio si celano una miriade di emozioni diverse, sia sul piano sportivo, sia su quello personale. Penso, ad esempio, a Gianluca e ciò che ha dovuto passare negli ultimi anni (il capo delegazione dell’Italia ha affrontato e sconfitto un tumore al pancreas, ndr.). È proprio una bella immagine».
Un dolce lieto fine
Un momento unico, speciale, nel quale il ct e il suo fido braccio destro hanno finalmente festeggiato il loro primo successo con la selezione azzurra. Un traguardo cullato a lungo anche da giocatori, senza però essere mai riusciti a tagliarlo. Anzi, in campo il percorso di entrambi con la nazionale azzurra è stato piuttosto avaro di bei ricordi. La classica ciliegina sulla torta ce l’ha poi messa lo scenario, il teatro di questa consacrazione: quel Wembley che nel 1992, nella finalissima dell’allora Coppa dei Campioni, vide il Barcellona di Cruijff infrangere i sogni della grande Sampdoria di Boškov, trascinata proprio dai gemelli del gol. Un cerchio che si è chiuso, a detta dello stesso Mancini, con tanti conti in sospeso finalmente regolati. «Penso però che questo aspetto sia emerso soltanto a fine incontro e che fosse intrinseco a Roberto, Gianluca e tutti i membri dello staff che con loro hanno condiviso anche un passato da calciatori, piuttosto che al resto della squadra - analizza Dossena -. Anche perché spesso con le nuove generazioni, devi essere bravo a toccare altri tasti. Ancor prima dello spirito di rivalsa, sono però convinto che ci fosse la volontà di incidere, di lasciare un segno indelebile nella storia. Il passato è insomma emerso una volta che tutto si è concluso con un lieto fine, rendendo la soddisfazione ancora più dolce».
Nessun paragone con il passato
Dolce era anche stata l’avventura azzurra ai Mondiali spagnoli del 1982, dove Dossena e compagni conquistarono - anche in quel caso l’11 luglio - il terzo titolo iridato della selezione italiana. Questa nazionale è simile a quella di 39 anni fa? «Secondo me no, per nulla. Sono passati tanti anni, si parla di epoche diverse. Vedo però delle affinità dal punto di vista dello spirito di squadra, dell’affiatamento. Quella attuale è una selezione che pur riconoscendo determinati limiti - come l’assenza di fuoriclasse, che noi avevamo ad esempio anche alla Sampdoria all’epoca di Mancini e Vialli - è composta da buonissimi giocatori, che hanno fatto della coesione e dell’amicizia le loro armi principali. Sono però presupposti imprescindibili, che spesso e volentieri si celano dietro ogni grande vittoria».
Quella nella rassegna iridata in terra iberica - ormai quasi 40 anni fa - fu invece nel segno del compianto Paolo Rossi, venuto a mancare lo scorso 9 dicembre. Domenica sera, Dossena ha speso un pensiero anche per lui? «Sì, la mente è corsa a lui, ma anche a Gaetano Scirea, ad Enzo Bearzot, a Cesare Maldini e tutti coloro che ci mancano molto e che purtroppo non hanno potuto festeggiare con noi questo grande successo. C’è sempre un velo di malinconia quando riaffiorano i ricordi legati a loro e ai bei momenti trascorsi insieme, ma sono convinto che la vittoria azzurra li abbia resi felici».
Una gestione esemplare
Un trionfo che in molti - non a torto - hanno definito il capolavoro di Roberto Mancini, capace in tre anni di raccogliere i cocci lasciati dalla disastrosa gestione Ventura, portando gli azzurri addirittura sul tetto d’Europa: «Premetto che fare peggio di quanto accaduto nel novembre del 2017 (con la mancata qualificazione ai Mondiali russi, ndr) era francamente difficile - scherza amaramente l’ex centrocampista -. In questo senso il “Mancio” ha trovato terreno fertile. È stato poi bravo a lavorare in profondità, toccando i tasti giusti che gli hanno permesso di accelerare i tempi nel processo di ricostruzione». Emblematica, in questo senso, è stata la gestione dei giocatori durante Euro 2020. Ben 25 dei 26 elementi selezionati hanno collezionato almeno un minuto di gioco, con il solo terzo portiere Alex Meret costretto a mordere il freno in panchina: «Il gruppo va sia spronato che accudito - conferma Dossena -. Una semplice apparizione di qualche minuto può far tanto per chi rimane ai margini della rosa».
Una rosa che ai Mondiali in Qatar del prossimo anno, in seguito a questo trionfo, dovrà dimostrarsi all’altezza delle accresciute aspettative: «L’Italia però non dovrà commettere l’errore di cambiare pelle. I valori visti in questo Europeo - umiltà in primis - saranno cruciali anche alla rassegna iridata. Le qualità per far bene ci sono e sognare non costa nulla, anche se i Mondiali sono una “bestia” differente» chiosa Dossena.