Lo scenario

E se dopo Behrami, Xhaka e Shaqiri la Svizzera schierasse Shevchenko?

Come accaduto con i conflitti nell’ex Jugoslavia, l’ondata di profughi ucraini potrebbe avere un impatto anche sulla futura composizione della Nazionale rossocrociata - Raffaele Poli: «Situazione di partenza diversa, ma le potenziali condizioni sarebbero date»
©Alexander Demianchuk
Massimo Solari
23.03.2022 20:51

Tra poco meno di una settimana la Svizzera sfiderà il Kosovo a Zurigo. Un’amichevole? No, di più. Un abbraccio fra due Paesi. Legati indissolubilmente fra le pieghe della storia. Per l’ASF, che ha voluto fortemente organizzare questa partita inedita, sarà una «festa». Non a caso, si va verso il tutto esaurito. Con il calcio, una volta di più, quale prezioso vettore per riflettere su altro. L’identità, per esempio. In campo, infatti, saranno diversi gli eroi dei due mondi. Xhaka, Shaqiri e Zeqiri da un lato. Aliti, Fazliji o ancora Kryeziu e Domgjoni dall’altro. Persone, o meglio famiglie che negli anni Novanta hanno trovato rifugio proprio in Svizzera. In fuga dalle bombe che hanno lacerato l’ex Jugoslavia e i suoi popoli. Ieri i Balcani. Oggi l’Ucraina, un corpo martoriato, da cui sgorgano sangue e profughi. Milioni di profughi. Già. E centomila o forse più di loro sono attesi entro i nostri confini.

Il ponte che oggi manca
Di fronte a queste dinamiche e ai numeri - impressionanti - che ne discendono, è dunque lecito chiedersi se accadrà di nuovo. Insomma, se, e in che misura, il futuro della Nazionale rossocrociata potrebbe essere scritto anche da immigrati ucraini. «A oggi la durata del conflitto rimane imprevedibile. Provvisoria, di riflesso, è quindi anche la sorte delle migliaia di profughi che hanno lasciato l’Ucraina». La premessa è di Raffaele Poli. Il responsabile dell’Osservatorio calcistico del Centro internazionale di studio dello sport, con sede a Neuchâtel, ha studiato e analizzato il fenomeno delle migrazioni e le sue ricadute sul mondo del pallone. «E in questo senso - spiega - la situazione dei rifugiati balcanici, negli anni Novanta, presenta delle differenze. Queste persone poterono fare affidamento su maggiori conoscenze e appigli sul territorio elvetico. Grazie in particolar modo ai lavoratori stagionali che dalla fine degli anni Sessanta avevano trovato spalancate le porte di molte imprese svizzere. L’approccio, dunque, fu diverso. E, tra l’altro venne favorito dalla creazione di squadre cosiddette di «comunità». Per intenderci, i vari FC Kosova, FC Bosna Zürich, eccetera, che militano nelle leghe regionali. «Questo passo - prosegue Poli - rischia di essere più complicato per gli ucraini. Poiché, per l’appunto, è assente una diaspora antecedente il loro arrivo. Quel ponte, al contrario, esistente per le popolazioni dell’ex Jugoslavia. Trattandosi di una migrazione soprattutto di donne e bambini, mancano inoltre quelle figure - normalmente maschili e adulte - da cui potrebbero nascere delle ipotetiche Dynamo Zurigo od Odessa-Lausanne».

L'occhio attento dell'ASF
Per Poli «ciò non toglie ai ragazzi ucraini la possibilità di aggregarsi alle società locali. Come avvenuto in passato per parecchi rifugiati di altre origini, la cui affermazione anzi si è concretizzata piuttosto in questi ambienti. E se, purtroppo per loro, l’attuale permanenza temporanea dovesse trasformarsi in dimora stabile, è chiaro che sui grandi numeri sarebbe lecito attendersi la consacrazione di talenti anche nel mondo del pallone». I futuri Shevchenko rossocrociati, esatto. «Come i Behrami, Shaqiri o Xhaka, i ragazzi in questione avrebbero infatti la possibilità di approfittare delle infrastrutture e delle strutture di formazione di alto livello presenti in Svizzera. Senza dimenticare che la politica dell’ASF non è cambiata nel frattempo. L’interesse a promuovere giovani giocatori che non sono ancora in possesso del passaporto elvetico rimane alto. Una volta acquisita la nostra nazionalità - e non dimentichiamo che per gli under 18 gli anni per la naturalizzazione si accorciano - questi profili potrebbero concretamente rinforzare la nostra nazionale. Perché no, già con orizzonte 2030. Non solo: proprio alla luce del percorso di successo di molti calciatori di etnia albanese - ma ultimamente pure africana - la consapevolezza e la sensibilità della federazione si sono persino rafforzate nel recente passato».

Il colonnello Lobanovski
Il pallone, d’altronde, è un facilitatore sociale potentissimo. E Poli ne spiega le ragioni. «Il calcio è uno sport popolare, alla portata di tutti. Anche di chi non gode di particolari risorse finanziarie o è non è in grado di fare lunghe trasferte. La capillarità di questa attività sul territorio rimane buona. E ciò, per chi per l’appunto arriva da un altro Paese, può tradursi in una soluzione a basso costo non lontano da casa. Ebbene, sul piano dell’integrazione sociale, ancor prima che di prospettive di carriera, questo è un aspetto centrale». Il nostro interlocutore pone quindi l’accento su una seconda variabile. «Come fu il caso per le realtà dell’ex Jugoslavia, il calcio è uno sport già molto conosciuto in Ucraina. Radicato, anche. Basti pensare al colonnello Lobanovski, nato a Kiev e pioniere del calcio moderno. O al prestigio di alcuni club, su tutti Dinamo Kiev e Shakhtar. E la tradizione calcistica è senz’altro d’aiuto in questi frangenti. Il bambino o giovane ragazzo riconosce dei codici culturali che già gli appartenevano pure nello Stato che lo ospita. E, complice la relativa accessibilità, ne viene attirato».

Scelte di campo
A differenza dell’Ucraina, il Kosovo dei nostri leader Xhaka e Shaqiri è però stato riconosciuto da FIFA e UEFA solo nel 2016. Quando, cioè, molti nazionali rossocrociati avevano già fatto una scelta di campo. Insomma, in futuro la doppia cittadinanza potrebbe non essere un freno per gli ucraini di Svizzera. Poli ne è convinto solo in parte. «La tesi è senz’altro veritiera ma non mancano gli esempi in grado di sconfessarla. Per un Rakitic - esploso a Basilea - che ha optato per la Croazia, ci sono i Gavranovic, i Seferovic o i Drmic che hanno sposato la causa elvetica e non quella croata e bosniaca. Generalmente, chi cresce in un Paese, parla la lingua locale e fa parte delle sue strutture, è tentato di riconoscerlo anche a livello di appartenenza sportiva. E sì, potrebbe benissimo valere anche per gli ucraini che in queste ore fuggono in Svizzera».

Le variabili, dalla durata allo statuto S

Jérôme Berthoud è sociologo dello sport all’Istituto superiore di studi in amministrazione pubblica (IDHEAP) di Losanna. Ma anche presidente del neonato Osservatorio dello sport popolare, un’associazione che intende misurare la capacità degli attori dello sport nell’affrontare i cambiamenti sociali. Ecco perché in questi giorni sta seguendo con attenzione l’accoglienza dei profughi ucraini in Svizzera. La Segreteria di Stato della migrazione, lunedì, ne censiva già oltre 11.000. «Ma le cifre evocate, in prospettiva, sono decisamente più importanti. Oltre che impressionanti. E persino più elevate di quelle conosciute negli anni Novanta, a seguito dei conflitti nei Balcani». Quelle guerre, tiene a ricordare l’esperto, si svolsero sul lungo periodo, all’inizio e alla fine del decennio. «Rendendo inevitabile, per molti rifugiati, lo stabilimento definitivo entro i confini elvetici. E, di riflesso, l’avvenire svizzero di nuove generazioni, come quella dei calciatori Behrami, Shaqiri e Xhaka». Molto, insomma, dipenderà dalla durata della guerra innescata dalla Russia. «È molto presto per delineare degli scenari affidabili. Detto ciò, e a differenza del passato, ho però l’impressione che le condizioni di vita in Ucraina - perlomeno quelle di partenza - potrebbero favorire maggiormente un ritorno alle origini. Ma, anche qui, a fare la differenza sarà il grado di distruzione della guerra in corso». E a proposito di fattori decisivi. Lo statuto di protezione S, attivato per la prima volta nella storia dalla Confederazione, potrebbe da parte sua spingere molti ucraini a restare. Lo strumento, tra le altre cose, permette infatti l’accesso completo al mercato del lavoro e all’educazione scolastica. «Di nuovo, e come suggerisce la stessa necessità di rinnovare il diritto di soggiorno al termine di un anno, è l’incertezza a farla da padrona» osserva Berthoud: «L’integrazione a lungo termine di queste persone non mi sembra essere ancora all’ordine del giorno della politica nazionale». Come Raffaele Poli, qui sopra, anche il sociologo rammenta quindi il ruolo giocato dai lavoratori stagionali per la penetrazione della comunità balcanica in Svizzera. Mentre i «club di migranti, allora, avevano costituito un primo passo, una sorta di porta d’entrata verso altro. Come pure uno strumento di vocazione identitaria, in particolare per il Kosovo che non era riconosciuto sul piano internazionale». Berthoud tocca poi un altro punto: «Far parte di una struttura, in questo caso un campionato regionale o interregionale, favorisce i contatti, crea una rete di conoscenze. La seconda tappa del percorso, non a caso, ha spinto queste società a diversificare l’origine dei propri membri. Aprendosi ad altre comunità, lingue, culture». Lo sport, dunque, come mezzo d’inclusione. Non esclusivo. «Di fronte a un’urgenza come quella ucraina - conclude Jérôme Berthoud - la logica collettiva dovrebbe avere la priorità. È questa la vera sfida che attende le organizzazioni sportive e le autorità nei confronti dei profughi in arrivo dall’est dell’Europa. Non la riuscita del singolo o la prefigurazione del futuro Shevchenko rossocrociato. È vero, sul piano delle competizioni si tende a esaltare l’individuo. Ma se lo sport vuole avere un impatto per davvero forte, in termini di salute fisica e psichica, dovrà interessare la massa. Per questo serviranno strutture più flessibili e soprattutto accessibili».

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