FC Lugano: la sfida Renzetti-Novoselskiy secondo Francesco Manzoni

Francesco Manzoni guidò il Lugano a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta. Fu un presidente elegante ma soprattutto vincente, ad immagine del successo in Coppa Svizzera del 1993. Di tempo ne è passato, ma l’ex dirigente segue ancora i bianconeri allo stadio. Sabato, era fra il pubblico mentre capitan Sabbatini e compagni cercavano disperatamente il 3-3 sinonimo di Europa League.
«L’exploit del Lugano, una notizia certo bellissima, si è intrecciato purtroppo con la morte del mio amico Bruno Beyeler» afferma il nostro interlocutore. «La mia intera avventura calcistica l’ho vissuta con lui, che è stato calciatore ma anche uomo società. Quando un amico ti lascia è triste, ma la vita va avanti e per i bianconeri è stato un sabato felice».

Un addio «semplice»
Manzoni ereditò il Lugano da Spiess e lo consegnò a Tullio Calloni. Sa cosa vuol dire subentrare ad un presidente e cosa significa lasciare l’incarico. E allora gli chiediamo cosa ne pensa del momento attuale in casa bianconera, con Angelo Renzetti pronto a farsi da parte (come a proseguire) e Leonid Novoselskiy alla (disperata?) ricerca di partner in Russia per rilevare la maggioranza del club. Da noi interrogato, quest’ultimo ha detto di non voler rilasciare dichiarazioni fino al 31 maggio, quando scadrà l’opzione per l’acquisto. «Il mio addio fu semplice» aggiunge l’ex presidente. «Dissi, anche per scaramanzia: se vinco la Coppa me ne vado. E così feci, anche se per via dei tempi tecnici il mio addio fu piuttosto lungo. Fu semplice, inoltre, perché il mio lavoro mi portò via da Lugano».
Eppure, salutare una «creatura» come il Football Club Lugano lascia sempre un po’ di amarezza e tristezza. «È ovvio, da sportivo ti dispiace andartene dopo aver costruito tanto e aver raccolto. In questo senso capisco Angelo, sebbene dica di avere metabolizzato l’eventuale addio. Renzetti, a Lugano, ha fatto qualcosa di straordinario. Soltanto un cocciuto come lui, se mi passate il termine, poteva riportare la Super League in Ticino. Il presidente merita di continuare, almeno per un altro anno. Economicamente, stando alle sue dichiarazioni, potrebbe farlo. L’Europa gli darebbe una mano in questo senso. L’idea che lui prosegua è bellissima».
Una questione di voglia
Bene, ma cosa spinge una persona ad investire tempo e denaro e, per farla breve, ad assumere la guida di un club? Come si avvicinò Manzoni al calcio? «Entrai nel Lugano all’inizio degli anni Settanta. La voglia, diciamo, mi venne ben prima di diventare presidente. Entrai anche per un discorso di amicizia: fu Cecchino Malfanti ad invitarmi. Ricordo bene le trasferte in treno, quando si mangiava nel vagone ristorante. E ricordo che al nostro rientro, a Lugano, spesso dovevamo organizzare i taxi per tornare a casa. Presi in mano la società succedendo a Spiess e, con le scelte giuste, il Lugano tornò in A».
Era un altro calcio
Anche ai tempi di Manzoni il Lugano aveva un costo importante, eppure c’era una maggior disponibilità economica a livello di piazza. «Il momento della città era diverso, era più facile trovare partner e sponsor per coprire i buchi. Credo ci fosse anche una passione differente fra la gente, magari perché schieravamo una squadra molto svizzera e ticinese. Il calcio, in definitiva, era un altro rispetto a quello attuale». Ma Angelo Renzetti, facciamo notare all’ex presidente, viene definito spesso l’ultimo dei romantici. «In effetti lui è uno vecchio stampo, ed è per questo che mi piace tanto. Ammiro il prodotto che offre a Lugano. È stato un maestro nel valorizzare giocatori poco conosciuti. Il suo regno finora è stato perfetto».
Il Lugano di Manzoni era indubbiamente meno professionalizzato. «Intanto noi eravamo una semplice associazione, non una società anonima. Ma avevamo diversi amici pronti a darci una mano, anche mettendoci dei soldi loro. Con la legge Bosman il pallone si è avviato verso una nuova era, nella quale le società calcistiche sono aziende chiamate a fare profitti. Tanto di cappello a Renzetti, che resiste in un panorama simile».
Dalla Russia con una visione
Dall’altra parte, Leonid Novoselskiy si propone come un’alternativa moderna, se vogliamo. Il russo un po’ affascina e un po’ spaventa, più che altro perché è straniero. «E il Ticino calcistico non ha mai avuto un gran rapporto con gli investitori esteri» fa notare Manzoni. «Piuttosto, dovremmo chiederci come mai Leonid Novoselskiy sia il solo, finora, ad essersi fatto avanti più o meno concretamente. Renzetti se ne lamenta da tempo. In una città piccola come Lugano è complicato, oggi, trovare sponsor e amici. Certo, ci sono le competizioni europee. Quelle ti permettono di restare a galla. Ma è dura arrivarci e un domani, fra ranking svizzero al ribasso e nuove Coppe, sarà pure peggio per i piccoli club come il Lugano. Apro una parentesi: avanti così, il calcio ucciderà il calcio. Poi per fortuna uno si innamora di nuovo di questo magnifico gioco vedendo l’Atalanta».
Fare il presidente ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. È un ruolo di visibilità, «ma non lo facevo per vanità» si affretta subito a dire Manzoni. «Alla fine se vinci sei bravo, se perdi vieni criticato. Certo, è un’attività che stanca. Capisco Angelo. Ma quando ottieni un risultato, quando poi affronti un Real Madrid in Coppa delle Coppe, beh, tutti i sacrifici e tutte le sconfitte come per magia spariscono. Poi, dopo un po’ che giri sulla giostra, è anche giusto lasciare. È come la politica, non bisogna mantenere una carica per troppo tempo».
Guai ad innamorarsi
Renzetti è un presidente innamorato del suo club e, nello specifico, dei giocatori. Li tratta come figli. «Anche io ero così» sintetizza Manzoni. «All’epoca ero parte di un calcio più ruspante e grezzo, provinciale se vogliamo. Anche in Lega ci si conosceva tutti, i dirigenti del calcio svizzero di rado cambiavano. Quanto ai calciatori, io li trattavo bene ma seguivo un diktat: guai ad innamorarsi di loro. Mi capitava eh, però cercavo sempre di non lasciarmi coinvolgere». Presidente negli anni Ottanta e Novanta, adesso tifoso, non fa strano a Manzoni vedere che lo stadio in pratica non è cambiato di una virgola? «Cornaredo ma anche la gente che lo popola (ride, ndr). Il pubblico era un problema ai miei tempi e lo è tuttora. Lugano è così. È una città che ti dà ed è generosa solo quando vinci. Non esiste una vera e propria cultura dell’andare a vedere i bianconeri giocare».