Il caso

Ibra, Miura e gli altri vecchietti

Molti giocatori stanno allungando le proprie carriere oltre l’inimmaginabile, come «King Kazu» protagonista in Giappone a 53 anni - Lo svedese del Milan invece prende a calci avversari e COVID-19, continuando così ad alimentare la narrazione dell’attaccante invincibile
Zlatan Ibrahimovic, 39 anni ad ottobre, dovrà rimanere lontano dai campi per un po’ causa COVID-19. © EPA/MAtteo Bazzi
Marcello Pelizzari
24.09.2020 20:41

Il suo cognome richiama una famosissima Lamborghini. Lui, però, al brivido della velocità ha sempre preferito la longevità. Già, Kazuyoshi Miura è il calciatore professionista più vecchio ancora in attività. Ha cinquantatré anni e, apparentemente, una voglia infinita di calcio. Mercoledì, ha ricevuto una maglia da titolare e, va da sé, la fascia di capitano per la partita di J League giapponese fra Kawasaki Frontale e Yokohama, la squadra in cui milita dal 2005. Al mondo, non c’è nessuno come lui. «Voglio rimanere ad alti livelli almeno fino a sessant’anni» si è affrettato a dire «King Kazu». Auguri. Anche se, in fondo, Miura è in buona compagnia: alle sue spalle, a centrocampo, giostrava un certo Shunsuke Nakamura. Quarantadue anni e un passato importante in Europa con Reggina, Celtic Glasgow ed Espanyol. Roba da matti.

Non solo pallone

Andare oltre, nello sport, è possibile. Senza necessariamente scomodare sua maestà Roger Federer, di esempi ce ne sono a decine. Valentino Rossi e Tom Brady, volendo fare due nomi famosi. Il calcio non fa eccezione. E Miura, alla stagione numero trentacinque fra i professionisti, è semplicemente il capofila di tanti, tantissimi vecchietti terribili desiderosi di ritardare un altro po’ il momento del sipario e della pensione. Non si sa se per passione o per paura del domani. Prendete quell’altro, lo svedesone di Malmö. Pochi mesi fa, nell’annunciare il suo imminente rinnovo con il Milan, aveva dichiarato senza troppi fronzoli: «Non sono come voi, perché non sono voi. Io sono Zlatan Ibrahimovic, e mi sto solo riscaldando». Urca. Di sicuro, l’attaccante rossonero si è riscaldato alla grande alla ripresa della Serie A, con una doppietta (quasi tripletta) al Bologna. Quindi una nota fra il nostalgico e lo strafottente: «Se avessi avuto vent’anni, avrei fatto altri due gol». Vero, ma pazienza. A quasi trentanove anni, «Ibra» rimane un calciatore dominante, totemico, devastante. La rinascita del Milan è passata (anche) dai suoi piedi e dalla sua spavalderia, oltreché dalla sua capacità di elevare e trascinare i compagni. Ora, dovrà battere il nemico più subdolo di tutti: il coronavirus. Nella fase più acuta della pandemia, Zlatan aveva metaforicamente preso a calci la COVID-19 mettendo in piedi una raccolta fondi. E c’’è chi, intanto, l’ha messa sul ridere: «Il coronavirus è risultato positivo a Ibrahimovic». Lo stesso giocatore, tramite Twitter, si è affidato all’ironia: «La COVID-19 ha avuto il coraggio di sfidarmi. Pessima idea». Per la cronaca, nessun sintomo né altro.

Il rispetto per gli anziani

In un mondo calcistico spesso dominato dalla meglio gioventù o comunque dalla necessità di crescere e valorizzare i ragazzi del vivaio, l’impatto dei calciatori più anziani non va sottovalutato. Né sottaciuto. E Miura, ancora lui, torna utile al nostro discorso. In Giappone, del resto, il rispetto per gli anziani è praticamente legge. Guai, insomma, a dare del nonno a qualcuno. Al punto che la stella delle stelle, dicono i dirigenti dello Yokohama in coro e con forza, può restare fintantoché lo vorrà. Perché è fonte di ispirazione, perché «tutto è possibile» non solo nel calcio e lui lo sta dimostrando, perché il duro lavoro e la dedizione sono elementi portanti della cultura nipponica. «Mi piace ancora giocare a calcio, in ogni momento» ha raccontato Miura. «Anzi, mi piace ancora di più di quando ero in Brasile». Parentesi: Kazuyoshi, negli anni Ottanta, appena quindicenne si trasferì in Brasile per imparare il mestiere. Vestendo fra le altre le maglie del Santos, del Palmeiras e del Coritiba. Un po’ come Oliver Hutton, il grande protagonista di Holly e Benji, anche se l’autore della serie Yoichi Takahashi spiegò di non essersi mai ispirato a Miura per la costruzione del personaggio.

Super Mijat Maric

Tutto molto bello. E in Svizzera? Come siamo messi? Due i vecchietti in campo alla prima giornata. Il più anziano, con i suoi trentasei anni, otto mesi e nove giorni al momento del calcio d’inizio, era il portiere del Lucerna David Zibung. Si è infilato i guantoni in tutta fretta, dato che il titolare designato, Marius Müller, è diventato papà poco prima della partita. A ruota Mijat Maric, veterano del Lugano targato Maurizio Jacobacci, l’uomo che gira con i codici della difesa sottobraccio e tampona più falle di un idraulico. Al fischio dell’arbitro aveva trentasei anni, quattro mesi e venti giorni. L’uno e l’altro verranno presto raggiunti da un altro classe ’84, Guillaume Hoarau del Sion. Com’era quella storia che il pallone non è un paese per vecchi? Per alcuni, è soltanto una favoletta.

Marco Marano, team doctor del Football Club Lugano: "Spesso è una questione di endorfine ed ego"

Dottor Marano, banalmente: è possibile allungare così tanto una carriera sportiva?

«Lo è. E per una combinazione di fattori. C’è, sicuramente, una certa predisposizione sul piano genetico: caratteristiche muscolari o aerobiche tali per cui anche in età avanzata una prestazione sportiva risulta eccellente. Poi ci sono fattori esterni, allenabili. Ecco, le due cose assieme fanno sì che un Buffon, un Ibrahimovic o a suo tempo un Maldini possano giocare ad alti livelli a lungo. In tutti questi casi, comunque, a fare la differenza è la vita da atleta al 100%: il rispetto delle regole che noi medici diamo è fondamentale».

Ecco, se un giocatore supera senza troppi problemi i trenta, trentacinque anni è anche per i passi avanti nell’ambito della medicina sportiva?

«Di sicuro oggi abbiamo più strumenti per seguire atleti e giocatori. Di più, li seguiamo a 360 gradi e non soltanto nel momento in cui sono in pista o al campo. Curiamo il riposo, il recupero, l’alimentazione. Fattori, ancora, importanti per prolungare una carriera».

Un giocatore come Ibrahimovic ha anche saputo superare tanti infortuni, spesso gravi.

«La predisposizione genetica, anche qui, fa molto. Detto ciò, per recuperare da infortuni gravi come quelli occorsi ad un Ibrahimovic bisogna fare dei sacrifici incredibili. Fare un crociato a trentasette anni non è come farlo a venti. Ore e ore di lavoro, appunto sacrifici per riportare il corpo ai livelli pre infortunio».

Come vanno allenati e stimolati i «vecchi»? Bisogna cercare di preservarli il più possibile? O, in alternativa, è meglio sottoporli alle medesime sollecitazioni dei colleghi più giovani? In sintesi, lo staff medico di un club ragiona secondo il metodo «due pesi, due misure» o no?

«Io girerei la questione. Un atleta over trentacinque ha più esperienza di un giovane. Sa gestirsi meglio, modulando il dispendio energetico sia in allenamento sia in partita».

Può farci un esempio?

«Il più immediato che mi viene in mente è quello di Mijat Maric, difensore del Football Club Lugano. Lui sa produrre performance incredibili con, fra virgolette, il minimo sforzo. Sa capire, insomma, quale intensità dare, o se preferite quando forzare e quando no. I ventenni invece forzano di continuo e con loro dobbiamo stare più attenti, proprio perché devono ancora imparare questa capacità di gestire uno sforzo».

Finora abbiamo parlato di questi senatori da un punto di vista strettamente atletico. Esiste però anche una componente più intima e, diciamo, psicologica? Ovvero: un giocatore che rimanda di continuo l’addio al calcio lo fa perché ha timore del futuro o perché rifiuta il concetto di pensionamento?

«Di sicuro, un calciatore ha un ego importante. Per chi fa del pallone un mestiere, spesso il ritorno alla vita normale e al concetto di persona comune è complicato. Questo fattore, quindi, indubbiamente c’è. Ma alla base c’è comunque una componente medica».

Quale?

«Il rilascio di endorfine, un gruppo di sostanze chimiche prodotte dal cervello che dà benessere e soddisfazione. Lo sport, a certi livelli, diventa una fabbrica di endorfine e per questo si parla spesso di sport come fosse una droga. C’è chi va in crisi di astinenza. Ecco, allora, che dire addio al calcio potrebbe essere un qualcosa di problematico».