Il Como, Fabregas e una prevedibile crisi d'identità
«Io capisco la realtà di chi siamo». Cesc Fabregas, al solito lucidissimo nel post-partita, ha ricordato a tutti, domenica sera, le origini del Como, spiegando così il cattivo momento della sua squadra.
Lo seguiamo nella riflessione, e ribadiamo che il posto del Como, di questo Como, non avrebbe dovuto essere la Serie A, non subito, non già quest'anno. Il Como era un progetto, e ha funzionato subito, perlomeno in Serie B. E si è ritrovato di colpo proiettato nella massima categoria, un po' per caso insomma, un po' per l'ottimo lavoro fatto a ogni livello, un po' perché a volte il calcio va così.
Ritrovatosi in Serie A, il Como si è rifatto il look, ha portato sul Lario tanti giocatori d'esperienza ma anche qualche scommessa. Ha ricostruito la squadra, o giù di lì, tenendo parte dell'ossatura della promozione per la panchina. Ma il divario tra titolari e riserve si è fatto netto. Lo vediamo ogni domenica, in particolare quando di fronte al Como si presentano squadre come Lazio e Fiorentina. E quando a Fabregas mancano tre, poi quattro, poi cinque titolari. A quel punto la Serie A diventa troppa cosa, per il Como, per quello che altro non era che un progetto.
Ma qui chiamiamo in causa anche Fabregas. Lui stesso predica «umiltà», la chiede a pubblico e giocatori: ma anche nell'approccio alla partita forse ne occorrerebbe di più. Quando in campo, contro la Fiorentina, contro questa Fiorentina, mandi contemporaneamente Goldaniga, Barba, Sala, Engelhardt, oltre a Moreno e Da Cunha fuori ruolo, be', serve un altro tipo d'approccio, meno portato alle velleità, al giochismo.
Sia ben inteso, la stima per Fabregas e per la sua idea di calcio è intatta - dovrebbe esserlo anche per il popolo della curva e per i criticoni della tribuna principale -, ma vediamo margini di crescita anche per il mister, non solo per la società. La squadra, invece, sta dando il massimo. Anche su questo aspetto, lo spagnolo non si sbaglia. Ma ci sono limiti evidenti, individuali e collettivi. E quelli li puoi nascondere solo con compattezza e intensità. E con un pizzico di malizia in più.
In questo momento, capire cosa sia il Como è una questione assai complessa. Perché in tribuna d'onore c'è Hollywood - contro i viola c'erano Chris Pine e Benedict Cumberbatch, mentre contro la Roma dovrebbe essere il turno di Keira Knightley -, in panchina un ex fuoriclasse del calcio giocato, in campo un futuro Pallone d'Oro (Nico Paz), ma poi anche tanti, troppi, gregari. Che dovrebbero essere spesi come tali. Senza vendere illusioni.
Per trovare una coerenza, serve un altro sforzo. Si è capito che il progetto del Como 2023-2024 è stato di fatto interrotto, a risultato ottenuto (in anticipo, ci ripetiamo). Ma il Como 2024-2025 non è ancora un progetto, è qualcosa di indefinito. E una definizione, nel calcio, è necessaria. Le cose fatte a metà non funzionano, mai. Il Como deve allora andare fino in fondo. Puntando sul gioco, senza se e senza ma, ma anche sulla consapevolezza di ciò che era e di ciò che è. La piazza è chiamata a concedere ancora qualche settimana alla società, magari approfittando dei prossimi due turni, contro Monza e Venezia, e aspettando la finestra di mercato di gennaio. Poi si potrà concedere un bilancio, senza fretta, senza foga.
La Serie A, in questo momento, è ancora un lusso, e come tale va vissuta, gustandosi la fortuna di un'opportunità prevista soltanto a metà.