Il Crus a cuore aperto: «Il titolo? No, non mi pento di averlo fatto credere pure ai tifosi: da giugno nuovo ciclo»

A un Lugano che annaspa non eravamo abituati. O meglio: raramente, sotto la gestione di Mattia Croci-Torti, avevamo osservato una squadra così in balia degli eventi. Per l’allenatore ticinese - e per le sue aspirazioni - è stato un periodo frustrante. Forse il primo veramente difficile dall’entrata in carica nel settembre 2021. A pochi giorni dall’inizio del girone per il titolo e dall’ardua rincorsa a uno degli obiettivi societari - la top 3 della Super League - abbiamo voluto parlarne direttamente con il Crus.
Mattia, sei riuscito a non guardare le semifinali di Coppa Svizzera? E la nuova impresa del Bienne che sentimenti ha suscitato in te? Sollievo? O più rabbia?
«Le ho guardate in parte. E per quanto concerne il successo del Bienne, devo essere sincero: non ho provato né sollievo, né rabbia, solo grande stima per la squadra di Chaibeddra. Contro di noi avevano già disputato una partita incredibile sul piano difensivo, e non pensavo potessero ripeterla, anzi migliorarla. Ci sono riusciti al cospetto di un avversario fisicamente forte come l’YB. Perciò è giusto togliersi il cappello davanti a questa impresa clamorosa. Il Basilea? La seconda semifinale mi ha fatto riflettere su un dato. Sui 4 gol realizzati, 3 sono nati da calcio d’angolo. Ebbene, il Lugano del futuro dovrà essere costruito anche per farsi trovare pronto sotto questo aspetto. Nel 2025 non abbiamo trovato una sola rete su corner…».
In questi giorni, ascoltando San Luca di Cesare Cremonini e Luca Carboni, abbiamo pensato all’allenatore del Lugano. Conosci questo splendido brano?
«L’ho sentito alcune volte; d’altronde parliamo di cantanti che apprezzo molto. Tuttavia, devo ammettere che non mi è rimasto dentro. Gli manca un ritornello forte. Che è ciò di cui ho bisogno per affezionarmi a una canzone. Fatta un’eccezione: Notte prima degli esami di Antonello Venditti».
«Quando non c’è qualcuno che mi aiuta/Vado a correre fino a San Luca/Così magari mi trovo/In qualche sentiero nuovo, lì». Mattia Croci-Torti ha avuto l’impressione di essersi un po’ perso, in queste settimane complicate, persino pesanti? E ha chiesto aiuto a qualcuno?
«No, mai. Semplicemente si è trattato e si tratta di accettare un momento di difficoltà. E di reagire. Ma in questa fase, che come in precedenza continua a essere scandita da lunghe camminate, non avverto l’esigenza di aggrapparmi a qualcuno. Mi affido alla forza che ho dentro e alla scorza del mio carattere».
Valon Behrami, che cura i tuoi interessi assieme a Walter Fernandez, potrebbe per esempio fungere da prezioso consigliere. O preferisci cavartela da solo?
«Ripeto. Lungo questi mesi, oggettivamente insoddisfacenti sul piano dei risultati, non ho avuto momenti di debolezza. Ho uno staff, ed è con i suoi componenti che – semmai – avvengono le riflessioni. Cao Ortelli, Selcuk Sasivari, Andrea Aletti e Riccardo Di Benedetto sono le persone di cui mi fido. Siamo noi a gestire al Lugano e, di riflesso, a conoscere le dinamiche – più o meno profonde – dello spogliatoio. Insomma, per migliorare e correggere eventuali errori è del loro aiuto che ho bisogno, non di chi non è addentro alla questione».
Torniamo a San Luca. «Capita anche a te/Di camminare giorni interi interminabili/E sprofondare nei pensieri/Abbandonato a desideri inconfessabili»?
«Quando rifletto e rimugino in marcia, è perché cerco soluzioni. O, magari, le parole giuste per smuovere il gruppo. I pensieri non mancano, certo, ma mi reputo una persona abbastanza pragmatica».


Eppure, parlando apertamente di titolo senza che nessuno te lo avesse imposto, hai deciso di confessare qualcosa che avrebbe anche potuto rimanere nell’ombra. Protetto. Aver trasformato il tuo desiderio in quello dei tifosi, non ha plasmato una pericolosa illusione prima e la disillusione poi?
«Di nuovo: sono una persona realista. Che sa, quindi, come maneggiare i diversi obiettivi. Arrivare sino in fondo alla Conference League, per esempio, non è mai stato un tema, per quanto sia stato incredibile spingersi sino agli ottavi di finale. Per quanto concerne la Super League, al contrario, non mi rimangio la parola: quando le grandi annaspano, club come il Lugano devono approfittarne. A riuscirci nelle ultime settimane è stato il Basilea, vincendo tutte le partite, mentre noi abbiamo dovuto fare i conti con un crollo motivazionale. Eravamo convinti di poter andare a -1, e ce la siamo giocata nell’ultimo scontro diretto al St. Jakob. Finire a -7, al contrario, è stato difficile da digerire. Detto ciò, sono un tecnico abituato a spingere, alla ricerca di traguardi ambiziosi. È la mia benzina, mentre fatico ad accontentarmi. Perciò continuo a ritenere che il titolo rappresentasse un obiettivo difficile e però realizzabile grazie a determinate condizioni».
Non ti fai dunque una colpa per aver venduto alla piazza un sogno che si è infranto in modo piuttosto fragoroso?
«No. Preferisco lanciare messaggi propositivi e ambiziosi. Continuerò a farlo, perché la mia gestione funziona così. Con un’asticella che non smette di alzarsi. Solo in questa maniera, coltivando delle aspirazioni, è e sarà possibile credere in qualcosa d’importante. Provare a farlo senza preavviso, da un giorno all’altro, risulterebbe invece molto complicato. Anche per questo motivo crediamo ancora di poter chiudere nei primi tre posti, rispondendo alle aspettative della società».
Forse hai voluto forzare, bruciare le tappe? «Capita anche a te/Di non volere più aspettare la felicità» recitano sempre Cremonini e Carboni...
«Dopo la partita con il Lucerna eravamo primi in classifica. E chi occupa questa posizione a fine febbraio non può aspettare, nascondendosi di fronte al proprio pubblico. Di fronte alla Svizzera, anche. Solo chi ha paura, in una situazione del genere, avrebbe affermato di puntare al 4. posto. E l’appagamento non mi renderà un allenatore migliore. Parlare di un anno storto, dopo tre stagioni superlative, non è nel mio stile. La costante fame di vittoria, la voglia di aggiornarsi e di rimettersi in gioco, di assumersi la responsabilità quando le cose non funzionano, quello sì. L’importante sarà non avere rimpianti a giugno. E in questo senso abbiamo ancora cinque partite da giocare e nessuna intenzione di tirare i remi in barca».
Cremonini è uno dei simboli moderni di Bologna. Tu, però, alla città emiliana associ soprattutto un libro. Quale?
«Jack frusciante è uscito dal gruppo, di Enrico Brizzi. Un romanzo che ha segnato la mia gioventù».
E che in fondo si ricollega alla precedente domanda. Pensi, o ti capita di pensare, di essere in un cerchio che limita le tue ambizioni sportive? E vorresti saltare fuori?
«Nel cerchio si entra all’alba di ogni campionato, cercando di nuotare nel miglior modo possibile ed evitando di farsi travolgere da eventuali burrasche. La verità è che ogni stagione ha la propria storia e in quella attuale – a differenza del passato – non siamo riusciti a portare la necessaria continuità. Purtroppo, si è assistito a un continuo capovolgimento di giocatori e ruoli che solitamente non avevamo. Eravamo abituati a costruire un percorso, ad alimentare un discorso coerente e a condurlo in porto. Quest’anno è successo solo all’inizio. Dopodiché le certezze che ti permettono di giocare con fiducia sono andate scemando».


Se il Lugano si è riscoperto fragile, la responsabilità è da ricondurre anche a chi guida la squadra. In questo senso non ti sei mai nascosto. Ma se dovessi cambiare una cosa – una sola – della tua gestione in questa stagione, quale sarebbe?
«A essere sincero fatico a individuare una sliding door, una sola, in grado d’indirizzare su cattivi binari la squadra e la stagione. E ciò, nonostante vi siano state delle partite, come i quarti di Coppa a Bienne o il ritorno degli ottavi di Conference contro lo Celje, che hanno rappresentato delle autentiche mazzate. Detto questo, nella gestione delle dinamiche interne vi sono sicuramente due o tre situazioni che pensavo di aver controllato bene, ma che a posteriori avrei trattato diversamente».
Infieriamo. Aprile 2022: la semifinale di Coppa contro il Lucerna regala la serata più emozionante a Cornaredo. Aprile 2023: conquistate in modo folle un’altra finale e da lì in poi non perdete una partita. Aprile 2024: secondo mese lastricato dalle vittorie, zero sconfitte e penultimo atto con il Sion gestito con maturità. Aprile 2025: il Lugano è depresso.
«A causa di una quadratura del cerchio che, per la prima volta in quattro anni, continua a sfuggirci. Da mesi siamo alla ricerca della squadra “più forte”, mentre nel mese di marzo del 2022, 2023 e 2024 di fatto avevamo già preso delle decisioni chiare circa gli obiettivi principali della stagione e la formazione necessaria per raggiungerli. Non è una questione di modulo, ma di consapevolezza dei singoli giocatori, di certezze che avremmo dovuto essere in grado di fornire a tutti loro. È anche una questione di gerarchie, di interpreti che conoscono esattamente il proprio compito. Che lo accettano. Come gli Amoura o gli Aliseda che sapevano spaccare in due le partite, o – un anno fa – i Cimignani, i Mahou, i Bottani e i Sabbatini che facevano la differenza a gara in corso. Al Lugano del 2025 è invece successo di disputare una grande partita con il Lucerna e però di non potersi più affidare a quell’undici. O di non potersi più proporre con la formazione che in pochi giorni aveva battuto Celje e Winterthur. E così, a risentirne è stata la credibilità della squadra sul lungo periodo. Una credibilità, che per più fattori, non sono riuscito a consolidare».
Quanto hanno pesato gli infortuni?
«Non è l’unica variabile, sia chiaro. Ma è la variabile che ha minato la grande forza del Lugano d’inizio stagione: il collettivo. Grazie alla panchina, infatti, avevamo fatto cedere ogni avversario. Questo valore aggiunto, in particolare a livello di risorse offensive, è purtroppo venuto meno nella seconda parte del campionato. E il fatto che il sottoscritto rimanga il secondo allenatore di Super League maggiormente premiato dai cambi, beh, la dice lunga sull’incidenza iniziale di questo fattore».
Ultimamente, si ha l’impressione di una formazione poco serena, prigioniera di una tensione costante. Come se le servisse sempre un episodio per esplodere o, purtroppo, implodere.
«Non trovare con continuità la gioia della rete è frustrante. E, a lungo andare, influisce sulla testa e sul linguaggio del corpo dei giocatori. Mi spiego meglio: sotto la mia gestione non eravamo mai stati capaci d’imporre il nostro gioco come lo abbiamo fatto a Berna e Basilea, nel primo tempo degli ultimi due incroci stagionali. Il problema è che una simile personalità non si è trasformata in concretezza e profitto sul piano realizzativo. E perdere in quel modo al Wankdorf e al St. Jakob, dove difficilmente in passato eravamo riusciti a farci rispettare dai primi minuti, ha indubbiamente intaccato il morale del gruppo. Ecco, più che le eliminazioni per mano di Bienne e Celje, ad aver fatto veramente male alla squadra sono state quelle due sconfitte, la prima da capolista e la seconda con la possibilità di rifarci sotto. Parliamo di partite chiave nella rincorsa al grande obiettivo in cui abbiamo deciso di credere, ma che, a fronte del risultato negativo, si sono rivelate particolarmente nocive per la tenuta mentale dei miei uomini».
Dopo la brutta sconfitta a Losanna hai evocato possibili stravolgimenti, poco importa se poco consoni alle caratteristiche del Lugano. Hai deciso in che modo scuotere la squadra?
«Trovare nuove idee è doveroso, e credo di averci provato a più riprese: dalla difesa a tre ai due attaccanti. L’unica vera soluzione, ora, passa tuttavia dal recupero di più elementi possibili. Anche perché la credibilità, a volte, la smarrisci proprio forzando il cambiamento e, di riflesso, andando a creare confusione. E noi non siamo una squadra confusa. Non ho dubbi in merito. No, siamo una squadra sfiduciata. Perciò, quando parlavo di “cambiare”, mi riferivo soprattutto alla scelta di chi mandare in campo. Non m’interessa chi ha il contratto in scadenza e chi no. Così come non m’interessa chi ha meritato di essere titolare finora. Insomma, il copione rimane lo stesso, ma gli attori devono cambiare. E a contare sarà chi ha più fame. Di qui l’importanza di ritrovare tutta una serie di profili, in grado di generare la concorrenza interna che in questi anni ha reso il Lugano più forte e che di recente è purtroppo venuta a mancare».


Scenario peggiore: il Lugano arriva sesto. Che cosa succede?
«Bisognerà rimboccarsi le maniche. Un’altra volta. Ripartendo da una convinzione maggiore e da un esame di coscienza. Perché, qualora finisse così, sarebbe chiaro a tutti che si poteva fare molto meglio. La parola fallimento, tuttavia, non mi piace. Faticherei a considerarla corretta. A mio modo di vedere si fallisce quando tutte le condizioni per avere successo sono date e non vengono sfruttate. Non penso sia il nostro caso, considerati diversi handicap oggettivi. D’altro canto, non è sempre possibile raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissati e una stagione del genere, per quanto deludente, dovrebbe piuttosto essere colta come una grande lezione».
Quale?
«Le stagioni calcistiche, a differenza di hockey e basket, durano tanto. E ai momenti di grande gioia, spesso, fanno da contraltare frangenti di amara tristezza. Ecco, a fronte di queste dinamiche ho sempre cercato di avere una gestione all’insegna dell’equilibrio sia verso l’esterno, sia verso lo spogliatoio. Senza esaltarmi nella vittoria, senza cedere allo sconforto in caso di sconfitta. Stiamo parlando di sport e, riagganciandomi all’inizio della risposta, il nostro lavoro è fatto di stagioni. Che si chiudono, sia nel bene, sia nel male. E poi si riaprono, rendendo imprescindibili nuove motivazioni per chi vince e permettendo a chi perde di rilanciarsi e rigenerarsi».
Provocazione e scenario migliore: senza Europa, le chance del Lugano di diventare campione svizzero al termine della stagione 2025-26 aumenterebbero in modo esponenziale.
«È uno scenario a cui non voglio nemmeno pensare. Vogliamo raggiungere l’Europa a tutti i costi, consapevoli del fatto che non viverla a Lugano produce diversi effetti collaterali. Fatica mentale e fatica fisica, che si sono viste più alla fine che all’inizio. Il palcoscenico internazionale, però, rende migliore chi lo calca. Il giocatore, l’allenatore, il club. Genera visibilità e soprattutto esperienza. Per dire: quest’anno ho vissuto la Conference League mille volte meglio rispetto all’edizione della scorsa stagione. Che poi il Basilea non abbia dovuto fare i conti con una simile stanchezza, potendo operare scelte forti e – tolto un difensore – schierare la formazione tipo nelle ultime sette partite, è altrettanto innegabile».
Sempre in vista della prossima stagione, il Lugano sarà chiamato a trovare una continuità nella discontinuità della rosa. Rispetto ad altre estati, infatti, partenze e arrivi rischiano di essere più numerosi. Sei preoccupato?
«Vi sarà un importante rinnovamento e, questa, è l’unica certezza che ho. Sarà una sfida. Se solitamente i giocatori a fine contratto erano uno o due, a questo giro sono molti di più. Comunque vada, dunque, si aprirà una nuova strada di fronte a noi. Un nuovo ciclo. Nuova aria. E ciò indipendentemente dalla nostra posizione in classifica al termine di questa stagione di Super League».


A proposito di giocatori che tirano molto bene i calci d’angolo. Se, come è stato confermato, il club sta trattando con Ezgjan Alioski, significa che l’allenatore ha valutato positivamente l’ingaggio di un profilo di questo tipo. Perché? E in che misura l’impatto dei vari Fassnacht, Zuber e ovviamente Shaqiri sono stati indicativi?
«In realtà, la prima fonte d’ispirazione è stato il ritorno di Renato Steffen in Svizzera. Non si tratta però di rilanciare dopo le operazioni di mercato di altri. L’interesse della società per Alioski è dovuto, anche, a un fattore umano. A un’eredità importante che il giocatore ha lasciato qui. Era un’altra società, d’accordo, e oltretutto io non ero presente all’epoca. Ma una società è anche il territorio, sono i tifosi, è un ambiente in cui è stato lasciato un pezzo di cuore. E una personalità che evidentemente ha suscitato l’interesse dell’attuale dirigenza».
Il tuo spogliatoio ha un problema di leadership? Riformuliamo: servirebbe distribuire il carisma e il buon esempio su più figure?
«Abbiamo un capitano, Bottani, e due vice, Doumbia e Steffen. Si tratta di caratteri differenti, anche nel modo di intendere ed esercitare la leadership. Tutti e tre, ad ogni modo, hanno un impatto forte sullo spogliatoio. Tradotto: il discorso non va fatto in termini numerici, sulla presenza più o meno massiccia di figure carismatiche. Quello di cui abbiamo bisogno, adesso, è tanta fame. È ambizione. A Lugano devono arrivare giocatori che vogliono raggiungere qualcosa tramite il club o che vogliono portare il club a vincere».
«Io non la so fare una preghiera/Chiedo solo quello che si avvera/Così sono sicuro/Non ci perde nessuno, qui». Che cosa chiede il Crus al finale di stagione?
«È molto semplice. Nel calcio contano solo i risultati e, dunque, ho un unico auspicio: vincere più partite possibili, nel quadro di un calendario non semplice e di un campionato che di scontato ha davvero poco. Voglio però anche ammirare una squadra decisa a reagire, della quale tutti possono sentirsi ancora orgogliosi. Determinati valori, d’altronde, emergono proprio nelle avversità. E l’orgoglio, anche da parte dei miei giocatori, non dovrà mancare da qui a fine maggio. Sono convinto che il sussulto finale arriverà. In caso contrario, accetterò e comprenderò il disappunto dei tifosi. Purché sia nell’immediato. Il percorso del mio Lugano, infatti, non finisce e non finirà con questo campionato».