Il mito di Maradona rivive a Zurigo

Non un esempio, ma un simbolo: il confine semantico che divide questi due concetti è spesso un campo minato in cui la morale miete parecchie vittime. Come può un uomo, che ha fatto di tutto per non fungere da modello, diventare un’icona? La risposta, per chi Diego Armando Maradona l’ha impresso dentro, è intuitiva: «Diego era uno di noi». Nonostante le contraddizioni disseminate sul suo cammino, o forse proprio perché dannatamente imperfetto, il «Pibe» ha fatto breccia soprattutto nel cuore degli ultimi.
A Napoli e per Napoli, Maradona è stato un profeta e ora, morendo, ha completato la sua trasformazione in divinità. Il rischio di risultare blasfemi, scrivendo del viscerale legame tra i napoletani e il «Pelusa», è dietro l’angolo. Scelte lessicali meno forti, tuttavia, annacquerebbero una sentimento che, trascendendo in venerazione metafisica, dal punto di vista sociologico non sembra avere nulla da invidiare alla devozione religiosa.
Noi abbiamo bussato piano alla porta di chi, pur vivendo lontano dal capoluogo campano, ha visto nel «Diez» un vero e proprio motore di riscatto sociale. I «napoletani di Zurigo» si ricordano ancora una serata di trentun anni fa, in cui Maradona, calcando distrattamente il campo del Letzigrund per la sfida di Coppa UEFA tra i partenopei e il Wettingen, li fece sentire davvero grandi. Uno scialbo 0-0, ma pieno di risvolti simbolici. Toni Romano, presidente del Club Napoli ZRH – gruppo di quasi cento tifosi che coltiva la fede azzurra sulla Limmat – si ricorda bene quel giorno: «Diego è arrivato e ci ha resi consapevoli di essere al mondo, di non avere nulla da invidiare a nessuno», spiega il diretto interessato. «Il Meridione è salito per una volta al potere e noi, così lontani da casa, ci siamo identificati quel ragazzino che, partito dalla povertà assoluta, era diventato il più forte calciatore di sempre». Lunghe attese fuori dall’Hotel Atlantis, struttura che ospitava il Napoli in quella trasferta, e ventimila italiani sugli spalti del Letzigrund: momenti irripetibili che Gianluca D’Angelo, fondatore del Club Napoli Zurigo Partenopea, non ha potuto vivere. Nato nel 1990, D’Angelo aveva solo due mesi quando il Napoli vinse il suo secondo Scudetto. L’immagine del fuoriclasse argentino è comunque nitida nei suoi occhi: «È paradossale, lo so. L’impatto delle gesta di Diego sulle nostre vite è però stato tale che ho sviluppato reminiscenze indelebili di quei giorni. Rivedo papà festeggiare lo scudetto per le strade zurighesi e riassaporo il suo stato d’animo, il sorriso di una persona su cui si era aperto un raggio di luce che andava ben al di là dello sport».
Per capire il sentimento di rivalsa instillato dalla figura di Maradona nei napoletani, ci siamo rivolti a Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra e tifosissimo azzurro. Cresciuto a Zugo da genitori campani, Ricciardi si spiega così le dinamiche sociali della parabola del «Pibe»: «Lui rappresentava l’essenza più profonda della napoletanità. Una persona che, arrivando dalla povertà, riesce a toccare le vette più alte e poi si spegne dopo una vita fatta di sregolatezze. Napoli è proprio così: un’eterna voglia di rivincita e di affermazione, che però è costretta a convivere con l’assenza di strutture sociali forti, che riescano a controbilanciare appieno gli aspetti negativi». Tale contraddizione interiore va a inserirsi in un contesto culturale davvero particolare, continua lo studioso: «Non dobbiamo dimenticare come Diego abbia indossato la maglia azzurra negli anni Ottanta, nel pieno della ricostruzione post terremoto dell’Irpinia. Reduce anche dall’epidemia di Colera del 1973, Napoli era il bersaglio preferito del sentimento antimeridionale. Ecco, Maradona, attraverso il calcio, ha fatto gol a questi stereotipi, dandoci forza».
Un fenomeno complesso, verrebbe da dire, come complessa è stata l’esistenza del campionissimo dell’Albiceleste. Il senso delle parole di chi l’ha amato alla follia appare però in tutta la sua semplicità: Diego, un mancino indimenticabile, ha percorso la sua strada senza voler essere da esempio per nessuno e, sbaglio dopo sbaglio, è entrato nell’anima di chi si sentiva in credito con la vita.