In piedi e con la birra in mano: perché negli stadi inglesi si vuole tornare al passato?

Hooligan. Il termine continua a inquietare. In fondo, lo ha sempre fatto. Per la precisione da quando, alla fine del XIX secolo, fece capolino durante un processo a carico di un 19.enne inglese, reo di aver aggredito un agente di polizia. L’associazione con il mondo del calcio, e quindi il tifo violento oltremanica, arrivò dopo. Esplodendo insieme alle sottoculture britanniche, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. I conti con la storia, l’hooliganismo li fece per contro in due momenti ben distinti: la finale di Coppa dei Campioni del 1985, a Bruxelles, e la semifinale della FA Cup, giocata il 15 aprile del 1989 a Sheffield. Da un lato la tragedia dell’Heysel, e i suoi 39 morti. Dall’altra la strage di Hillsborough, fatale a 97 persone. In mezzo sempre i tifosi del Liverpool, i loro comportamenti deleteri, i loro errori. Ai quali si cercò di rimediare con alcune misure drastiche, come il divieto di posti in piedi all’interno degli stadi. In Premier League e Championship, dal 1994, le partite si guardano solo da seduti. Vietato sgarrare. «Il celebre rapporto Taylor, elaborato su spinta dell’allora premier Margaret Thatcher, impose un cambiamento a 360 gradi ai club» sottolinea Sébastien Louis, storico ed esperto di tifo radicale. «Gli stadi fatiscenti vennero messi al bando, per lasciare spazio alla modernità infrastrutturale. Le nuove direttive vennero seguite alla lettera, talvolta esagerando. Presero così vita impianti concepiti più come centri commerciali che come luoghi per ospitare il tifoso classico. Non a caso, e per colpa dell’esplosione dei prezzi dei biglietti, da una trentina d’anni le classi popolari non frequentano più o quasi le partite del massimo campionato inglese. E con loro, fuori dagli stadi, sono rimasti striscioni, tamburi e coreografie».
L’obiettivo: creare atmosfera
Dal 1. gennaio del 2022, le cose potrebbero cambiare. Sì, è tutto vero e ponderato. La Sports Grounds Safety Authority - l’agenzia governativa preposta alla sicurezza negli impianti sportivi - ha autorizzato le società delle due massime leghe nazionali a ritornare al passato. Per l’appunto, riproponendo in via sperimentale i posti in piedi nei rispettivi stadi. Tutto molto romantico. E - sostengono i più ingenui - necessario per riconquistare l’anima popolare del football, che proprio in quegli stadi era insorta contro il progetto di Superlega. Sébastien Louis, tuttavia, antepone la prosa alla poesia. «Non dimentichiamoci che il calcio è diventato un’industria del tempo libero. E in quanto tale subisce la costante concorrenza di altri attrattori. Chi oggi va allo stadio, quindi, tende a prediligere l’esperienza alla partita in sé. Ecco, il tifo con le sue caratteristiche spettacolari, fa parte di questa esperienza. Un contorno, se vogliamo, che i maggiori campionati e le relative società hanno capito di poter e dover monetizzare. Lo spettatore, in questo modo, è messo in condizione di godersi l’atmosfera anche se confrontato con una gara di livello scadente». Ora, evidenzia il nostro interlocutore, c’è arrivata pure l’Inghilterra. «Anche se chi governa il calcio ha altresì intercettato un impulso dal basso. A spingere a lungo in questa direzione, infatti, è stata la Football Supporters Europe, una sorta di lobby continentale dei fan con alcune sezioni in Inghilterra».
L’altra piccola, grande rivoluzione
Eppure si torna sempre lì. Al prodotto e al destinatario a cui cercare di venderlo con il massimo profitto. «Lo spettatore-cliente e le televisioni» rammenta Louis. Per poi avanzare un esempio calzante: «Prendete gli spazi riservati ai VIP. Di norma non sono frequentati da tifosi veri e propri. Insomma, chi li occupa non per forza capisce di calcio. Bene: qual è la prima cosa che queste persone fanno quando sta per cominciare la partita? Prendono in mano il telefono e iniziano a filmare le curve, i cori, le coreografie. Con tanto di gara per pubblicare i video sui social media». Ed è subito marketing. Che poi fa rima con entrate. Al proposito, non deve dunque sorprendere l’altra piccola, grande rivoluzione allo studio nel Regno Unito. Tornare a permettere il consumo di alcol al proprio posto e non - come attualmente - solo nelle pause e all’esterno degli impianti. A cadere sarebbe così un altro storico divieto, in vigore da 36 anni e figlio della citata tragedia dell’Heysel. «Anche qui, il principale livello di lettura è di tipo commerciale ed economico» rileva Louis: «La pandemia ha insegnato ai club molte cose, tra le quali la necessità di diversificare al massimo le fonti di guadagno. E sì, la vendita di bevande alcoliche è una voce che può pesare parecchio sul budget». Non è tutto. «Per poter offrire un buon prodotto televisivo, serve riempire le tribune. E per convincerli si giocano anche queste carte». Il paradosso? La proposta della deputata del partito conservatore Tracey Crouch intende contrastare gli eccessi: «Spingiamo la gente a bere in fretta durante l’intervallo ed è l’aspetto malsano nel rapporto tra la passione per il calcio e l’alcol» le sue parole.
Un primato oramai sbiadito
L’Inghilterra, evidenzia in conclusione Sébastien Louis, ha perso il primato in termini di valorizzazione del tifo. «La Germania e l’Italia con i suoi ultras hanno oramai preso il sopravvento, grazie altresì a una politica dei prezzi molto più popolare. Mentre se si parla di hooligan, sono altre le realtà temute, come quella russa. Il mito del tifoso inglese manesco è in buona parte superato, sebbene qualche caso isolato si registri ancora: basti pensare al recente scontro tra i sostenitori del Leicester e quelli del Napoli. Diverse rivalità e violenze, invece, si consumano lontane dagli impianti, nei boschi o fuori da pub. Sono altre le forme di militanza che si stanno facendo largo tra i giovani oltremanica. Spesso in club non di primo piano. Modalità, queste, più legate alla spettacolarizzazione, con bandiere, fumogeni e coreografie». E i club non vogliono lasciarsele sfuggire.
Tifosi e disordini, dieci anni fa Sascha Kever entrò nella storia

Anche in Svizzera la violenza negli stadi rimane un’osservata speciale. In tutte le sue declinazioni, fisiche e verbali. Ma per arrivare all’attuale codice d’intervento - in caso di necessità - è servito il classico episodio di troppo. Un ceffone ricevuto in pieno volto, che ha spinto gli attori interessati - Swiss Football League, club e autorità - a darsi una struttura. Sono trascorsi esattamente dieci anni dal fattaccio. E, di riflesso, dalla decisione per certi versi storica presa da un ticinese: Sascha Kever. Il 2 ottobre del 2011, l’arbitro di Vezia ritenne doveroso interrompere il derby tra Grasshopper e Zurigo. Non era mai successo in Super League. Cosa accadde? In sintesi: disordini sulle tribune del «Letzi», tifoserie avversarie a contatto, lancio di mortaretti da un settore all’altro e addirittura ultras a scorrazzare indisturbati sulla pista di atletica. Troppo. Di qui la sospensione, quando correva il 77’. «È stata la decisione più difficile della mia carriera, la sicurezza dei giocatori era venuta meno» affermò all’epoca il direttore di gara. Oggi, invece, come ricorda Kever quel gesto fortissimo? «Rammento una sensazione duplice. Da un lato si trattò persino di una scelta semplice. D’istinto. E ciò dal momento che, ai miei occhi, la protezione delle persone sotto la mia responsabilità era davvero a rischio. Dall’altro, in assenza di un protocollo chiaro, mi presi una grande responsabilità. Perché nessuno, in quel momento, poteva garantirmi che la mia decisione - delicata e di fatto presa in solitaria - sarebbe stata priva di conseguenze. Pensiamo solo alla reazione delle migliaia di tifosi allo stadio, che avrebbe persino potuto peggiorare la situazione. Insomma, non c’erano delle direttive che tutelavano l’agire del sottoscritto».
Per fortuna, l’operato di Kever non venne messo in discussione. Né dalle società interessate, né dalla Lega. Che, anzi, ritenne urgente correre ai ripari. «La procedura d’intervento - conferma l’ex fischietto ticinese - fu consolidata e articolata. E non solo in Svizzera, ma a livello internazionale, dove un certo sentore di inadeguatezza - sul tema - era già presente. Oggi, di fronte a una simile fattispecie, il potere decisionale è trasversale e l’ordine delle contromisure ben definito. Penso ad esempio al quarto uomo, chiamato a fare un primo annuncio in caso di problemi. O alla sospensione temporanea del match, se i disordini proseguono. L’arbitro, inoltre, viene subito raggiunto da un osservatore e dai delegati alla sicurezza dello stadio e del club di casa. La valutazione dell’episodio, in tutte le sue sfaccettature, diventa automaticamente più meditata». E più semplice rispetto a dieci anni fa.