Julio Hernan Rossi: «La mia generazione sognava di diventare Maradona»

«Lugano-Basilea? Dai, sentiamo Julio Hernan Rossi». E così è stato: gli anni in bianconero, quelli al St. Jakob, ma anche gli albori della carriera e tanto, tantissimo altro. Poi, all’improvviso, Diego Armando Maradona è salito lassù. E allora, l’intervista con Julio, 43 anni, ha avuto anche un inatteso, e difficilissimo, secondo tempo.
Domanda scontata: che giorni sono stati, gli ultimi?
«Duri. Per me, per tutti. Non so spiegare cos’era Diego per noi argentini. E cos’era per noi calciatori: in campo gli vedevamo fare cose difficilissime, direi impossibili. L’ho ammirato, in maniera pura, sin dal primo momento. Ricordo le tante mattine in cui ci alzavamo per vederlo giocare al Napoli. Da voi, in Europa, era pomeriggio mentre in Argentina appunto era mattina».
Diego era davvero oltre?
«La mia generazione e quelle successive sono cresciute con l’idea, anzi con l’illusione, un giorno, di diventare Diego. È lui che motivò una nazione di giovani. È stato, riassumendo, magnifico. Maradona era il mio idolo assoluto, assieme a Caniggia e più recentemente Messi. Ma lui era lui, era uno speciale. Era diverso».
Perché, al di là delle abitudini e degli eccessi, in tanti separano l’uomo dal calciatore?
«Non lo so, ma non è possibile scindere i due Maradona. Lui era così, punto. Ha vissuto in quel modo, è morto come è morto. Era un ribelle e diceva tante cose sbagliate. Spesso, però, raccontava delle verità scomode, verità che nessuno osava dire. Non bisognerebbe dividere le due figure. Sì, io ho sognato con il calciatore. È lui che mi ha fatto felice. Però io prendo tutto. Ripeto: non ci sono due Maradona, Diego era uno solo e secondo me è per questo che la gente in tutto il mondo si era legata a lui. Per la vita tormentata, per quello che ha vinto. E per il timing della sua carriera».
In che senso timing?
«È davvero incredibile, per noi argentini, pensare a quando esplose il Diego calciatore. Il Paese ritrovò orgoglio grazie a lui. Perché sì, Maradona fu più di un numero dieci. Ci fece dimenticare gli anni, terribili, della dittatura. Per tacere della guerra, assurda, persa con l’Inghilterra. Ha usato il calcio per farci sognare e per esportare un’altra Argentina nel mondo. Ecco perché, per me, è stato straordinario».
Se è impossibile scindere l’uomo dal calciatore che significato possiamo dare nell’insieme alla vita di Diego?
«Perdono. È la prima parola che mi viene in mente, nella misura in cui tutte le cose che ha fatto, quelle brutte, gliele perdono. L’ho sempre fatto, perché sulla bilancia bisogna mettere anche la felicità che ha saputo regalare. È quello che lui ha fatto con le vite di noi tutti a contare. Alla fine, si è fatto male da solo».
Diego ha stimolato voi argentini ad abbracciare il calcio e a farne una professione. Ecco, domani ci sarà Lugano-Basilea. Cosa significano per lei questi due club?
«Il Lugano allora era un club di provincia, ma diventò subito casa mia. Fu, in effetti, la mia prima famiglia. Arrivai nel ‘98, a settembre. Ero giovanissimo ma la città mi piacque subito. E integrarmi non fu difficile. Imparai da Engel, da Morinini e dal suo preparatore atletico. E legai con tutti. Molti, come Rota, Fernandez, Gimenez e Bastida, li sento ancora oggi. Jimmy mi fece da fratello maggiore. Mi aprì la porta di casa sua e mi aiutò ad inserirmi. Eravamo qualcosa di incredibile, una squadra che sapeva mascherare i propri limiti ed esaltare i pregi. Peccato per quel titolo sfumato nel 2001, ma ottenemmo il massimo. Poi successe quel che successe, ma con il mio passaggio al Basilea almeno aiutai il Lugano a respirare per un po’».


E il Basilea?
«In quel momento, parliamo dei primi anni Duemila, era la squadra più importante del Paese. E io ero il tassello che mancava. Gross, l’allenatore, mi voleva già l’anno prima ma arrivò solo Gimenez. Io dissi a Jermini che sarei rimasto. Al St. Jakob vincemmo tutto e mi tolsi la soddisfazione di fare la Champions, quella vera. Ma non disdegno Lugano, anzi. Se mi guardo indietro metto le due esperienze sullo stesso piano: arrivavo dall’Argentina con tanta voglia di emergere, Cornaredo fu fondamentale per la mia crescita».
Fu difficile, per lei, abituarsi ad un Paese come la Svizzera?
«No, anche perché io avevo già vissuto un’esperienza lontano da casa prima di Lugano. Nel 1997 feci una stagione in Giappone, con l’Avispa Fukuoka. E la Svizzera non era un altro mondo come, appunto, poteva esserlo il Giappone. Senza l’inglese, che imparai da ragazzo grazie ai miei genitori, quei mesi in Asia sarebbero stati più difficili. In Ticino, per contro, andò tutto liscio. Avevo uno come Jimmy che mi faceva da guardia, la gente era calorosa e faceva di tutto per aiutarmi. A fare la differenza, al di là dell’inglese, fu l’educazione che mi impartirono mamma e papà. Dopo, è chiaro, c’erano giorni in cui avevo nostalgia. Ma in fondo a diciotto anni presi e lasciai Mar del Plata per Buenos Aires. Sapevo già cosa fosse la lontananza».
Un argentino in Giappone: come successe?
«Il River Plate insisteva per farmi fare esperienza e così mi spedì in prestito in Giappone. Papà mi accompagnò e restò con me per i primi tre mesi. Ma l’Argentina non si allontanò mai da me, siccome in squadra c’erano altri tre connazionali mentre tutto lo staff tecnico era argentino. Conobbi una nazione incredibile, un Paese preciso e organizzato. Certo, ci furono momenti difficili. Di solitudine. Ma quella voglia di emergere ebbe, per fortuna, sempre il sopravvento».
Va bene Maradona e la voglia di emularlo, ma cosa le fece capire che avrebbe fatto il calciatore?
«Non saprei, il calcio è in tutti noi. Ogni bambino argentino ha un pallone fra le mani dai due anni in avanti. Ma i miei non mi misero mai pressione. Mi dissero: fai quello che vuoi nella vita, ma fallo al 100%. Mia mamma mi vedeva ciccione e iperattivo. Così mi mandò a giocare a calcio. Papà era un appassionato, era bravo ma non era mai arrivato. Io, però, fino ai diciotto anni portai avanti anche la scuola. Solo allora mi dissi: proviamoci».
Come si concretizzò l’approdo al River Plate, «el más grande»?
«Io ero tifoso del San Lorenzo, non del River. Ma mio padre conosceva un allenatore delle giovanili dei Millonarios e mi procurò un provino. All’epoca giocavo già contro gli adulti, nella mia città, ma quando si aprirono le porte del River e del Monumental, lo stadio, cambiò tutto».
Se ripensa a quegli anni c’è un po’ di rammarico? Non riuscì mai ad imporsi al River.
«Sarebbe stato un sogno. Ma quella squadra era formata da fenomeni assoluti. Davanti a me c’erano giocatori come Francescoli, Salas, Crespo, Gallardo, Cruz, Ortega. Per un ragazzo come me imporsi era complicato. Non avevo il livello di Aimar, Saviola o Solari. Gente che, pur essendo giovane, riusciva ad emergere con appena due o tre partite».
Alcune presenze in Primera, ad ogni modo, riuscì a farle.
«E mi tremano le gambe solo a ripensarci. Che emozione. Ma era emozionante già giocare con la squadra riserve. A quei tempi, il campionato riserve era parallelo a quello vero. E così se c’era Boca contro River tu, poche ore prima, giocavi nello stesso stadio. Stadio che, ovviamente, era già pieno».
Perché il Lugano, invece?
«Perché volevo cambiare aria e, nonostante avessi offerte per restare in Argentina, l’idea di sbarcare in Europa non mi dispiaceva. Arrivai in Ticino in prova, ma Engel dopo un paio di allenamenti decise che sì, sarei rimasto in bianconero».
Quando capì, invece, che era arrivato il momento di appendere le scarpe al chiodo?
«Lasciai a trentatré anni, avrei potuto continuare ancora un po’. Stavo bene, ero allo Xamax e riuscii a recuperare da un infortunio al piede che richiese addirittura due operazioni. Lo feci in anticipo. Il presidente Bernasconi, però, mi separò dal resto della squadra senza dare spiegazioni. Così passai gli ultimi sei mesi di contratto in solitaria, quando volevo solo giocare».


Perché non andare altrove ma, appunto, smettere?
«Ero in contatto con Morinini, all’epoca al Bellinzona. Era la classica storia a lieto fine: io e lui di nuovo insieme, per di più in Ticino. Ci eravamo visti, era tutto fatto, ma all’ultimo il mister mi chiamò dicendomi che il presidente aveva cambiato idea. Per Morinini ero pronto a rinunciare ai soldi, del resto l’avrei seguito ovunque. Così optai per il ritiro. Sì, sul tavolo avevo altre offerte. Su tutte quella del Losanna. Ma non ero ispirato, non le sentivo mie. E quindi decisi di ritirarmi».
Come fu il dopo?
«Feci dell’altro e, alla fine, mi dedicai all’immobiliare. Fra tutto rimasi altri sette anni a Neuchâtel, una città che amo. Ma una volta che tutti i miei progetti andarono in porto crebbe sempre di più la voglia di avvicinarmi ai miei affetti».
E quindi l’addio alla Svizzera per Barcellona, in Spagna.
«Sì, perché a Barcellona c’era già mia sorella, c’era Gimenez e c’era un altro nostro amico in comune. E pure l’altra sorella, moglie di Mati Delgado, aveva pianificato di trasferirsi in Catalogna dopo l’addio al calcio del marito. Alla fine, tuttavia, lei e Mati hanno scelto Madrid. Tutta la mia famiglia, vera e allargata, comunque era qui. Era la cosa migliore da fare».
Non ha mai avuto voglia di tornare in Argentina?
«Mi dicevo sempre: un giorno tornerò. Ma ero indeciso. Ho fatto una vita fra sì, no, forse. E alla fine ho deciso di restare in Europa. Là, in Argentina, ora sono rimasti solo i miei».
Quanto le mancano gli abbracci e l’affetto dei suoi genitori? Fra pandemia e Maradona, adesso ce ne sarebbe bisogno.
«Mancavano durante la prima ondata, figuriamoci ora che, oltre all’emergenza, si è aggiunta la morte di Diego. Il 2020 è stato un anno duro, in tutti i sensi. Non poter vedere i miei è pesante».
