Il ricordo

L’addio al calcio di Marco Van Basten, trent’anni fa

Il 17 agosto del 1995 il Cigno di Utrecht, martoriato dagli infortuni, annunciò il suo ritiro – All’indomani, con addosso un’improbabile giacca di renna, salutò in lacrime San Siro e il Milan
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Marcello Pelizzari
17.08.2025 15:15

Ci sono addii che non si consumano in un giorno, ma che restano sospesi nel tempo, come ferite aperte. Trent’anni fa, il 17 agosto del 1995, Marco Van Basten annunciava il suo ritiro dal calcio. Aveva soltanto trent’anni, ma quelle caviglie martoriate e ballerine – un mistero per i medici di tutto il mondo, Svizzera compresa considerando l’intervento di «pulizia» a Samedan – non gli permettevano più di reggere il peso di un talento smisurato. Non fu la fine naturale di una carriera, fu un destino spezzato, una stella strappata troppo presto alla quotidianità del pallone. «La notizia che devo darvi è corta» disse il Cigno di Utrecht, secchissimo, durante una breve conferenza stampa organizzata in via Turati, nel cuore di Milano, allora sede del club rossonero. «Semplicemente, ho deciso di smettere di fare il calciatore. Grazie a tutti quanti».

Van Basten non era solo un centravanti, non era soltanto un goleador. Era eleganza, leggerezza, geometria trasformata in poesia. Un’opera d’arte. Ogni suo movimento conteneva la sintesi perfetta tra forza e grazia. Quel gol impossibile all’Europeo del 1988, la rovesciata contro il Göteborg in Champions League, i colpi di prima intenzione, il saltello prima di ogni rigore: lampi che ancora oggi risplendono come fotografie incorniciate nella memoria.

Eppure, ciò che più rimane non è solo l’archivio delle sue magie, ma l’immagine del suo addio. Il giro d’onore a San Siro, all’indomani dell’annuncio, con lo stadio in piedi, in lacrime. Van Basten che saluta lentamente, lo sguardo tradito da un dolore muto, la consapevolezza che quella favola non avrebbe avuto un ultimo capitolo, una giacchetta di daino (o renna, vai a saperlo) totalmente fuori luogo per una calda serata agostana. Non servivano parole, bastava l’applauso incessante, quel brusio che si trasformava in un abbraccio collettivo. È lì che il calcio capì di perdere non soltanto un fuoriclasse, ma un’idea di bellezza.

A trent’anni di distanza il rimpianto è ancora vivo: quanto avremmo voluto vederlo continuare, quanto ci manca la sua capacità di rendere semplice ciò che per tutti gli altri era impossibile. Ma Van Basten appartiene a quella categoria rara di campioni che non hanno bisogno di quantità per entrare nell’eternità. Pochi anni, ma vissuti a un’intensità tale da restare scolpiti nella storia.

Marco Van Basten è ancora lì, ogni volta che rivediamo un suo gol, ogni volta che nominiamo il suo nome con un sospiro o un accenno di nostalgia. Trent’anni senza di lui in campo, ma nessuno potrà mai portarcelo via dal cuore.

Quel 17 agosto, nella sala dei trofei, la sintesi del Berlusconismo applicato allo sport, Supermarco era il più tranquillo di tutti. Gli occhi e le parole misurate, al netto della tristezza, suggerivano una cosa soltanto: aveva accettato il suo destino. Fu lui, non a caso, a consolare i presenti. Disse che il Milan avrebbe continuato a vincere (e aveva ragione) forte di giocatori come Baggio, Savicevic, Weah, Maldini o capitan Baresi, chiarendo altresì che la mitica «nove», proprio agli albori dei numeri personalizzati, sarebbe stata bene, anzi benissimo sulle spalle di un altro attaccante (Weah) e non in esposizione, ritirata per sempre, da qualche parte. Lui, fra i più grandi di sempre, si mostrò perfino umile: «Quando un giocatore smette, diventa sempre migliore. Ma io ho giocato tante brutte partite, ho sbagliato gol clamorosi. Adesso mi dite che sono stato il più grande ma la verità è che ho fatto parte di una squadra imbottita di campioni».

Nel dare appuntamento per il giro di campo a San Siro, in occasione del tradizionale Trofeo Berlusconi, spiegò: «Spero di non commuovermi. Faccio brutta figura quando piango». Si commosse, in realtà. E con lui, uno stadio intero. Per tacere di chi, a casa davanti al televisore, pure versò una lacrima. Parafrasando Cesare Cremonini, che dedicò una canzone a un altro grandissimo, Roby Baggio, da quando Marco non gioca più, beh, non è più domenica.