Calcio

«Lavoro ventiquattro ore al giorno, ca**o»: l’immortale sfogo di Alberto Malesani, vent’anni dopo

Il 16 dicembre del 2005 l’allora allenatore del Panathinaikos fu protagonista di un’accesissima conferenza stampa diventata, immediatamente, un classico
Red. Online
16.12.2025 20:22

Esistono momenti che segnano il confine tra il calcio come sport e il calcio come vita vissuta. Il 16 dicembre 2005, ad Atene, Alberto Malesani non ha solo tenuto una conferenza stampa; ha messo in scena un’opera teatrale involontaria che, a distanza di vent'anni, resta il manifesto della passione pura contro il cinismo della critica.

Il Panathinaikos di Malesani arrancava, l’ambiente era elettrico e i tifosi contestavano ferocemente. Dopo un pari interno, la tensione esplose. Non fu una reazione scomposta fine a se stessa, ma il grido di un uomo che si sentiva tradito dal «sistema» del tifo e della stampa greca.

In poco meno di quattro minuti, Malesani condensò concetti che oggi sono parte del dizionario pop italiano e internazionale, a cominciare dall’appello rivolto ai tifosi («Diano una mano») per arrivare allo stacanovismo spinto («Perché io lavoro 24 ore al giorno»). Il tutto con un uso creativo della lingua, con un mix di italiano, inglese ed espressioni venete intervallato da una serie pressoché infinita di «ca**o», 21 le ripetizioni, che rese lo sfogo profondamente umano e tragicamente comico, punteggiatura di un dolore sportivo e personale.

A differenza dei monologhi moderni, spesso costruiti a tavolino dagli uffici stampa, quello di Malesani fu autentico. In un calcio che stava diventando sempre più patinato e robotico, Alberto portò il cuore (e la pancia) davanti ai microfoni. Oggi, in un'epoca di interviste piatte e risposte pre-confezionate, quel video è un monumento alla libertà d'espressione. Malesani difendeva i suoi giocatori, la sua fatica e, in ultima analisi, il diritto di sbagliare senza essere linciati mediaticamente.

Vent'anni dopo, Malesani si è ritirato nel suo veronese a produrre vino, lontano dai riflettori. Ma quel video continua a generare milioni di visualizzazioni. È diventato un meme prima che i meme esistessero, un inno alla resilienza per chiunque, in ufficio o nella vita, si sia sentito dire almeno una volta che non ha fatto abbastanza. 

Grazie, Alberto. Per averci ricordato che il calcio è emozione, anche quando fa male, e che a volte, per farsi capire, bisogna urlare fino a restare senza voce.