L’intervista

Lucien Favre: «Il campo mi manca»

L’allenatore svizzero di maggiore successo si racconta
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Red. Online
23.01.2022 14:47

Dopo la fine della sua avventura al Dortmund nel dicembre del 2020, Lucien Favre sentiva il bisogno di ricaricare le batterie. Adesso, invece, il vodese vorrebbe continuare una carriera che resta la più importante sinora avuta da un allenatore elvetico. A 64 anni, la passione che nutre nei confronti del calcio resta intatta.

«Sto molto bene», assicura Favre dalla sua casa di Saint-Barthélemy. L’uomo ha bisogno di muoversi, di fare sport ogni giorno. Colui che fu un centrocampista dalla tecnica raffinata, ora fa il giocoliere nel suo giardino. Il resto è storia. L’allenatore che conta più di 300 panchine in Bundesliga è pronto a fare ritorno in un grande campionato.

Lucien Favre, quali sono i suoi desideri per il 2022?
«Tornare alla normalità. Vorrei tanto che potessimo definitivamente lasciarci alle spalle la pandemia. Il calcio sta vivendo un periodo difficile, I giocatori e gli allenatori soffrono terribilmente l’assenza del pubblico. È importante non perdere il piacere di giocare».

Che cambiamenti ha portato il coronavirus nel mondo del pallone?
«La COVID-19 è una grande incognita. In Inghilterra gli stadi sono pieni, mentre in Germania sono praticamente vuoti. Alcune società perdono così diversi milioni in occasione di ogni incontro. Si gioca perciò solo per rispettare i contratti televisivi. Gli effetti della pandemia, comunque, sono stati nefasti per tutto il mondo, indipendentemente dalla professione esercitata e dal fatto di essere stati contagiati o meno».

Lei si è concesso una pausa piuttosto lunga dopo aver lasciato la panchina del Dortumnd nel dicembre del 2020. Era necessaria dopo i due anni e mezzo al Borussia?
«Mi sono spesso concesso delle pause dopo le mie esperienze in Germania. È stato il caso dopo la prima all’Hertha Berlino come pure dopo i cinque anni al Mönchengladbach. Prima del Dortumnd ci sono stati i due anni al Nizza: avevo insomma davvero bisogno di rigenerarmi. Questo non significa però che sono rimasto inattivo: ho viaggiato, ho scoperto altre culture calcistiche e ho raccolto i miei pensieri. Mi sono quindi sottoposto ad una sorta di formazione continua».

Quando si allena una squadra che gioca praticamente ogni tre giorni non è facile occuparsi delle relazioni familiari e sociali

E ha così potuto ritrovare il suo tessuto sociale...
«Chiaramente: ho ritrovato la mia famiglia e i miei amici. Ne avevo davvero bisogno. Quando si allena una squadra che gioca praticamente ogni tre giorni non è facile occuparsi delle relazioni familiari e sociali».

Il calcio la spinge però ancora a partire. Recentemente non è stato a Bilbao?
«Sì, sono stato una settimana in Spagna ad osservare l’Athletic. Ho avuto degli scambi fruttuosi con mister Marcelino. Ho potuto immergermi nell’atmosfera della squadra e comprendere le sue fondamenta. Sono sempre interessato alle evoluzioni nel mondo del pallone».

Facciamo un passo indietro: ha avuto bisogno di tempo per digerire la sua avventura al Dortmund?
«Cosa vuol dire del tempo? Bisogna accettare le scelte che vengono fatte. Ad un certo punto il dado è tratto e di colpo non ci sono più alternative. La vita di un allenatore è fatta di queste situazioni. Chiaramente rimpiango questa decisione. Mi sentivo in grado di riuscire a guidare la squadra fuori dal momento negativo che stava vivendo. Restare comunque due anni e mezzo al Dormund non è scontato per nessun allenatore. Valuto comunque in modo positivo la mia esperienza al Borussia».

Ha l’impressione che il rispetto nei confronti di un allenatore vada pian piano scemando?
«I tempi sono cambiati e tutto è portato agli estremi all’interno della nostra professione. Sta agli allenatori di proteggersi al meglio. Bisogna poter fare affidamento su di uno staff sul quale si ha una fiducia totale. È questo l’aspetto al quale faccio di più affidamento nel mio lavoro, oggi più che mai».

Oggi non è meglio essere un allenatore che sa comunicare bene piuttosto che uno che conosce bene la tattica?
«L’unica cosa che conta sono le vittorie. Colui che vince ha sempre ragione. Ma è chiaro che la comunicazione, a tutti i livelli, deve sempre funzionare».

La scorsa estate, quando si stava cercando il successore di Vladimir Petkovic alla guida della nazionale elvetica, ha detto che il ruolo di selezionatore non le interessava. Quale giudizio dà oggi alla selezione rossocrociata?
«Murat Yakin ha fatto un lavoro sensazionale. Già quando era un giocatore aveva una sensibilità molto sviluppata e sapeva anticipare le situazioni. Con gli innesti di Okafor, Vargas e Imeri ha saputo dare nuovo slancio alla squadra. La qualificazione ai Mondiali in Qatar ha poi confermato le scelte che ha operato. Non dimentichiamo però che l’accesso diretto alla manifestazione si è giocato sul filo del rasoio, e qui penso in particolare ai due rigori sbagliati dall’Italia».

Guidare la Nazionale? Non potrei mai fare un lavoro che fa sì che si giochi un match in novembre e quello successivo in marzo

Non ha mai rimpianto di non aver concorso per il posto lasciato vacante da Petkovic?
«No. Anche per una questione di tempistiche. E soprattutto perché sono uno di quegli allenatori che ha bisogno di andare quotidianamente sul campo. Non potrei mai fare un lavoro che fa sì che si giochi un match in novembre e quello successivo in marzo...».

Cosa ne pensa della proposta della FIFA di organizzare i Mondiali ogni due anni?
«Non sono un fan di questa proposta. Mettere in tavola una simile questione non era necessario. Nel 2026 sarà organizzata una Coppa del Mondo negli Stati Uniti, in Canada e in Messico con... 48 squadre: insomma, vi parteciperà praticamente tutto il mondo. Ciò farà inevitabilmente perdere un po’ della magia che caratterizza da sempre questa manifestazione».

Torniamo al suo futuro. Il suo nome è apparso in relazione a diverse squadre. A tal proposito, l’estate scorsa il Crystal Palace non le aveva fatto un’offerta allettante?
«Sì, è vero, ma le tempistiche non erano quelle giuste».

Quando la rivedremo a bordo campo?
«Non lo so ancora. Tutto può comunque andare molto velocemente. Sicuramente tornerò ad allenare, mi sento ancora molto fresco e godo di buona salute. Adesso che ho ricaricato le batterie voglio lavorare ancora per qualche annetto».

Aveva queste sensazione subito dopo aver chiuso il capitolo Dortmund?
«È chiaro che si pongono delle domande. Ha ancora senso? Ho ancora le energie necessarie? Ho tuttavia rapidamente capito che volevo tornare ad allenare. Ho bisogno del campo, di respirare calcio e di vivere dei momenti di pura adrenalina».

Si direbbe che sta vivendo una sorta di crisi d’astinenza...
«In un certo senso sì. Sono pronto a tornare in gioco, ma lo farò solo quando troverò un progetto che mi convinca al 100% e soltanto se potrò avere al mio fianco delle persone scelte da me. È una questione di fiducia».

Un ritorno in Svizzera è possibile?
«Come allenatore in Super League? No».