Calcio

L’ultimo rigore di Maradona tra amore, odio e sofferenza

Sono passati trent’anni: il 24 marzo 1991 il «Pibe de Oro» segnava il suo ultimo gol, su rigore, nel campionato italiano
Diego Armando Maradona nel 2018. @AP PHOTO/MARCO UGARTE
Stefano Marelli
24.03.2021 06:00

Sono passati trent’anni. Il 24 marzo 1991 Diego Maradona segnava grazie a un calcio di rigore il suo ultimo gol nel campionato italiano: poche ore più tardi deflagrò la notizia che El Pibe, capitano del Napoli, era risultato positivo alla cocaina.

Diego prende una rincorsa di quattro passi, spiazza Pagliuca e manda la palla all’incrocio dei pali. Trentalange, però, si inventa un’invasione d’area e fa ripetere il calcio di rigore. Gli italiani davvero non mi amano più, pensa il Pibe riposizionando la sfera sul dischetto. Maradona sceglie lo stesso lato, stavolta il portiere doriano intuisce, ma il tiro è angolatissimo e finisce comunque per insaccarsi alle sue spalle. All’arbitro torinese non resta che convalidare. Non che faccia molta differenza: i blucerchiati, lanciati verso uno storico scudetto, vincono comunque 4-1.

Tra dolore e mito

Era il 24 marzo di trent’anni fa, e quella massima punizione calciata due volte sarebbe passata alla storia: benché nessuno potesse immaginarlo, si trattava infatti dell’ultima rete firmata in Italia dal Dio del calcio. Al massimo, quel pomeriggio, i più attenti avrebbero potuto far notare che anche il suo primo gol in Serie A, quasi sette anni prima, era stato segnato – sempre su rigore – proprio contro la Sampdoria. Una bella coincidenza, se pensiamo che l’avventura dell’argentino nel Belpaese stava per chiudersi definitivamente.

Poche ore più tardi, infatti, deflagrò la notizia che il capitano della squadra partenopea, la settimana precedente, era risultato positivo alla cocaina durante il controllo antidoping dopo Napoli – Bari.

«In città c’era grande dispiacere, era come la diagnosi per un dolore che tutti sentivamo». Parola di Marco Ciriello, l’interlocutore ideale: prestigiosa firma sportiva, letteraria e cinematografica del Mattino e del Messaggero, romanziere immarcabile, napoletano come la sfogliatella e biografo del numero 10 argentino. Da ragazzino -giusto per capirci- viveva nel palazzo di fronte a quello abitato da Diego nei sette anni trascorsi all’ombra del Vesuvio. E gli bastava sporgersi dal terrazzo per godersi, come da una poltrona di ring, il delirio della folla che quotidianamente piantonava la casa dell’idolo di una città intera. Oppure, in tempi meno felici, le sirene della Guardia di finanza che veniva a notificargli qualche infrazione.

«Da tempo le voci sulla droga correvano, però poi Maradona riusciva sempre a smarcarsene. Vederlo giocare, anche a sprazzi, era come assistere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, che diventavano punti e gol. Quindi, anche quando era un Mandrake stanco, nessuno pensava che lo avrebbero incastrato. O che se ne sarebbe andato.

I napoletani pensano che tutto abbia sempre un seguito. Sapere che c’erano delle prove equivaleva a un dolore, ma pure a un accrescimento del mito: ah, si drogava veramente, e continuava a giocare in quel modo?».

Dio dalle sembianze umane

Diego fu squalificato per quindici mesi, abbandonò quasi immediatamente l’Italia, e dovettero passare molti anni prima che vi rimettesse piede. Il rapporto fra Maradona e il club che gli doveva tutto, ad ogni modo, si era deteriorato già da tempo. E i capricci e le assenze del Pibe, negli ultimi mesi, venivano sempre meno tollerati dai dirigenti.

«Per quanto mi riguarda, il dispiacere maggiore fu il suo comportamento nella partita di Coppa dei Campioni contro lo Spartak, in autunno. Non volle partire per Mosca coi compagni, fece penare tutti, raggiunse la squadra in ritardo e venne messo in panchina. Poi entrò, segnò pure, ma non era più lo stesso.

Era la contraddizione della sua magia, un auto-affossamento al quale nessuno voleva assistere. Poi si riprese, ma non tornò più il Diego degli anni precedenti».

La gente amava Diego per le sue giocate al limite del paranormale e perché in lui poteva in qualche modo identificarsi, dato che era basso, bruttino e tendente alla pinguedine. Era insomma una divinità dalle sembianze umane, niente da spartire con quegli atleti perfetti e apollinei che mettono in imbarazzo i comuni mortali, dei quali invece Diego condivideva difetti e debolezze. Lo ricorda anche Emanuela Audisio nella prefazione di “Maradona è amico mio”, uno dei molti consigliatissimi libri targati Marco Ciriello.

«Maradona è stato capace di attraversare molto, onestà e disonestà, mostrando che entrambe hanno una ragione, e di illuminare povertà, ricchezze, vanità, quante volte figlio mio, molte padre, ogni volta che ho potuto.

La vita va storta, come i dribbling, e a certe finte finisci per crederci anche tu, poi ti tuffi e scopri che il mare del tempo è una superficie dura, che fa male, che gli specchi sono tremendi, nella loro mancanza di fantasia».

Da solo con la sua colpa

Diego dunque a volte barava, con se stesso ancor prima che con gli altri. Eppure, da anni si dice che, in occasione di quel controllo antidoping, a Maradona fu stata tesa una trappola bella e buona: qualcuno forse aveva bisogno di un appiglio legale per cacciarlo senza dover sborsare un soldo. È plausibile?

«Nel campionato italiano tutto è possibile, ma faccio molta fatica a credere a questa ipotesi. C’è però un dato sicuramente da romanzo: Diego Armando Maradona, da sempre, faceva i controlli antidoping nascondendo sotto la tuta una pompetta contenente l’urina di un altro, e veniva sempre scortato al bagno da un dirigente. Quella volta, stranamente, non vollero accompagnarlo né Moggi né Pavarese. Diego venne lasciato solo con la sua colpa. Ma sono coincidenze e fors’anche congetture. Per sapere la verità bisognerebbe chiedere a Moggi. Certo, dispiace ammetterlo, ma in quella stagione Maradona era difficile da tenere a bada, sopportare e supportare. Oggi che non ho più 16 anni, ti dico che bisognava lasciarlo andare via due anni prima, dopo la vittoria della Coppa Uefa. Diego lo chiedeva da tempo, il presidente Ferlaino glielo aveva promesso, ma poi si era rimangiato la parola».

Perfetto capro espiatorio

El Pibe de oro era giunto a Napoli –in apparenza contro ogni logica di mercato– per dinamitare il mondo del calcio italiano e regalare un paio di scudetti a una squadra del Sud che da anni flirtava con la retrocessione e che tutti guardavano con disprezzo, o al massimo con falso compatimento, un po’ come si fa coi mutilati.

Povero com’era stato, Diego non si vergognava di essere approdato in un luogo tartassato, fatalista, e anche un po’ corresponsabile della sua condizione svantaggiata. Di quel mondo diventò – malgré soi – simbolo e portavoce, a metà strada fra Masaniello e San Gennaro. Tanto da riuscire a convincere molti napoletani a tifare Argentina contro l’Italia- nella semifinale mondiale giocata al San Paolo. E siccome quella partita la vinsero proprio i sudamericani, buttando fuori gli Azzurri da un torneo che pareva apparecchiato apposta per loro, gli italiani smisero di amare Maradona. «Mi correggo, l’Italia non ha mai amato Diego, proprio perché lui era riuscito a rendere grande Napoli. Ad ogni modo, va detto che il selezionatore Azeglio Vicini quella volta al San Paolo sbagliò la partita. Quel Mondiale avrebbe meritato di vincerlo Maradona, invece lo assegnarono alla Germania con un rigore regalato nella finale. Diego era comodissimo come capro espiatorio, e Napoli perfetta come luogo del delitto. Infatti, ancora se ne parla».

Il peggio e il meglio

Diego aveva fatto la fortuna della Napoli pallonara, ma tragicamente ne firmò pure la condanna a un futuro mesto. Era logico infatti che, dopo di lui, mai la squadra avrebbe di nuovo conosciuto una simile grandeur, perché nulla avrebbe retto al paragone con gli anni dei trionfi maradoniani. E dunque, inevitabilmente, si finisce a parlare d’altro. Molta gente, ad esempio, ama ricordare del Pibe solo le cene con i camorristi, e quasi nessuno fa notare che lui frequentava pure Massimo Troisi e Pino Daniele, che di Napoli erano l’immagine migliore in quegli anni. Come te lo spieghi? «Succede perché fa comodo, è semplice, efficace e in linea con l’odio italiano verso Maradona. Quei camorristi erano affiliati al maradonismo perché ne risvegliava il bambino che era in loro, come lo ha risvegliato in ogni povero. Maradona era oltre e – incarnando l’anima napoletana come pochissimi – era ovvio che dovesse incontrare anche la parte sporca. Ma non era lui che andava da loro, bensì loro da lui. In quel percorso a ritroso c’è l’errore di visione su Maradona e su Napoli, che persiste per una pigrizia intellettuale, politica e sociale».