Martin Dahlin, la generazione d'oro del 1994 e l'arte di diventare eroi

Il destino di Svezia e Svizzera torna a incrociarsi, questa sera alla Strawberry Arena di Stoccolma. E sullo sfondo, di nuovo, è possibile scorgere un Mondiale americano.
Tra il 2022 e il 2024, nei rispettivi Paesi, sono stati diffusi due documentari legati all’ultima Coppa del Mondo disputata negli Stati Uniti. «VM 94 – en sportsaga» il titolo del primo, dedicato alla cavalcata della selezione delle Tre Corone, che quell’edizione la chiuse al terzo posto. «L’épopée 1994, la Suisse à la Coupe du monde» ha invece narrato l’inebriante avventura dei rossocrociati, tornati a misurarsi in un grande torneo dopo un digiuno che pareva interminabile e capaci di accedere agli ottavi di finale. In quest’ultima opera, l’accento viene posto sulla classe di calciatori – probabilmente la più amata – che seppe riaccendere la passione e l’orgoglio della popolazione elvetica. Una scossa identitaria collettiva, insomma, senza particolari distinzioni sul piano individuale. Diverso il discorso per quanto concerne la serie scandinava, meno interessata al sussulto sportivo – tenuto altresì conto dei podi ai Mondiali e agli Europei casalinghi del 1958 e 1992 – e maggiormente focalizzata sulle singole parabole. E fra queste spicca il racconto di Martin Dahlin, uno degli attaccanti più micidiali degli anni Novanta.
Da vessato a eroe nazionale
Figlio di un musicista venezuelano e di una psicologa svedese, Dahlin contribuì in modo decisivo all’incredibile percorso della sua nazionale, firmando 4 reti e formando un terzetto fenomenale insieme a Kennet Andersson e Tomas Brolin. Chiamato così in onore di Martin Luther King, assassinato dodici giorni prima della sua nascita in Scania, il giocatore visse una catarsi personale in America. Nel documentario, Dahlin ripercorre gli episodi di odio e razzismo subìti in età infantile e giovanile. Per poi sottolineare la portata del successo ottenuto oltreoceano. «Volevo dimostrare al mondo intero che valevo quanto tutti gli altri. E sono orgoglioso di essere diventato un modello». Da vessato a eroe nazionale, dunque, con tanto di candidatura al Pallone d’Oro 1994 preceduta e seguita da decine e decine di gol con le maglie di Malmö, Gladbach e Blackburn, mentre alla Roma – a differenza dei compagni terribili che sfondarono in Serie A – andò meno bene.
«Oggi, però, il background migratorio non è più un tema controverso per la Svezia calcistica» sottolinea Dahlin al Corriere del Ticino. «Lo definirei, semplicemente, uno specchio della società e della libera circolazione in seno all’Unione europea». Per dire: l’impressionante arsenale offensivo dell’attuale selezione maggiore presenta quattro giocatori dal doppio passaporto: Gyökeres (anche ungherese), Isak (Eritrea), Elanga (Camerun), Kulusevski (Macedonia del Nord), per tacere del difensore e capitano Hien (Ghana). Beh, anche la nazionale svizzera ha vieppiù dovuto imparare a maneggiare la questione, dopo esserne stata appena lambita a USA ’94. I recenti e discussi «casi» Avdullahu, Kospo e Hajdari, tuttavia, dimostrano la persistente delicatezza e spigolosità del dossier. A differenza dell’avversario di questa sera a Stoccolma, per contro, l’ambiente rossocrociato sembra aver custodito e valorizzato in modo più lineare l’eredità sportiva della generazione d’oro del 1994. E ciò indipendentemente dall’amarissimo precedente, negli ottavi di finale del Mondiale 2018. Basti pensare che la Svizzera ha preso parte a 9 degli ultimi 10 grandi appuntamenti, a fronte delle 6 presenze della Svezia.
Il primo ct straniero
Esclusa da Euro 2020, così come da Qatar 2022, la squadra di Jon Dahl Tomasson rischia grosso anche questa volta. Dahlin non dispera. «Sarò alla Strawberry Arena e mi aspetto un match difficile per la Svezia. Grazie alle sue spiccate doti offensive, però, credo che i miei connazionali riusciranno a fare la differenza». I primi due match della campagna di qualificazione, suggerivamo, sono stati deludenti. Di più: hanno avvelenato l’atmosfera. E con un misero punto all’attivo, la selezione delle Tre Corone non ha più diritto all’errore. «È vero, quanto mostrato contro Slovenia e Kosovo è stato insoddisfacente. Una reazione e una prestazione all’altezza, davanti al pubblico di casa, sono imprescindibili. Ma non sono preoccupato: a fronte della qualità della squadra, che nei vari reparti può contare su elementi di Serie A, Bundesliga e Premier League, la Svezia dispone di sufficienti mezzi per prevalere sulla Svizzera e tornare a un Mondiale».


Dovesse accadere, sarà anche per merito di una rivoluzione coraggiosa. «Tomasson – conferma Dahlin - è il primo ct straniero della Svezia. Il che, inevitabilmente, ha incrementato la pressione sul suo operato». L’ex centravanti danese, inoltre, ha osato, mandando al macero un’istituzione tattica: la difesa a quattro.
Quel trio con Andersson e Brolin
Ora, invero, si dibatte soprattutto in merito all’apporto di Gyökeres e Isak e sulla capacità dei due di coesistere sul rettangolo verde, perché no, affiancati pure da Elanga. In questo senso la Svezia ha attraversato più epoche, cambiando pelle ancora e ancora. Per anni, infatti, là davanti ci si è aggrappati a un sol uomo, stella abbagliante e al contempo personaggio scomodo: Zlatan Ibrahimovic. A USA ‘94, al contrario, l’inaudito venne sfiorato grazie alla spettacolare convivenza di Dahlin, Brolin e Andersson. Come è stato possibile? «È una questione di alchimia, come pure di lavoro e sacrificio a favore del compagno» indica il nostro interlocutore. «Io e Kennet, per esempio, iniziammo a spalleggiarci all’età di 16 anni, nelle selezioni giovanili svedesi. Ebbene, la Coppa del Mondo negli Stati Uniti giunse dieci anni più tardi, sublimando un feeling coltivato per decine e decine di partite. Tutto, o quasi, ci riusciva istintivamente». Dahlin torna quindi al presente: «Il valore di Gyökeres, Isak, Elanga e pure Kulusevski non si discute. Ma questi giocatori devono imparare a essere forti e performanti insieme». Il che, aggiunge l’ex bomber svedese, richiede altresì uno sviluppo nel tempo da parte del collettivo.
Malmö e la mano di Hodgson
Nel 1994, appunto, s’incastrarono tutti i tasselli del puzzle. «Anche se altrettanto importante, se non più importante, fu l’Europeo casalingo del 1992» tiene a precisare Dahlin. «Nei gironi riuscimmo a superare la Danimarca, poi trionfatrice, mentre servì la Germania campione del mondo, oltre che squadra più forte del pianeta in quel momento, a estrometterci in semifinale. È in quel torneo, insomma, che la Svezia comprese pienamente la sua forza». Uscire così, a un passo dall’ultimo atto di Göteborg, fece però male ai tifosi. Per quanto inebriante, l’ascesa di Dahlin e compagni aprì anche una ferita. Ecco perché a trasformare la frustrazione in euforia, dando vita a un moto identitario ancor più potente, fu il Mondiale successivo. «Nessuno si aspettava che la Svezia potesse compiere un altro exploit. E quando dico nessuno, mi riferisco all’opinione pubblica e ai nostri sostenitori, tutto fuorché una fonte di pressione. In seno allo spogliatoio, al contrario, le aspettative non mancavano. E ciò proprio alla luce di quanto fatto due anni prima. Vale inoltre il discorso che facevo poc’anzi: negli Stati Uniti si presentò una rosa affiatata e oramai senza complessi: mi piace ricordare il ruolo decisivo dei giocatori che, come il sottoscritto, lanciarono la carriera al Malmö». Ironia della sorte, a forgiare i successi in patria di quel blocco di calciatori era stato Hodgson, commissario tecnico della Svizzera che nel 1994 fondò il suo splendido Mondiale sulla solidità di una difesa targata Sion. «Roy – rammenta Dahlin - è stato un allenatore fondamentale per la mia carriera. Un professionista fantastico, davvero, che mi ha insegnato molto, e sotto più punti di vista, sia a Malmö, sia al Blackburn».
«Stop it Chirac»
I cammini di rossocrociati e svedesi, così come di Dahlin e Hodgson, tornarono quindi a sovrapporsi, nel quadro delle qualificazioni a Euro ‘96. E a farne le spese fu la formazione scandinava, a cui non bastò l’ennesima rete del suo bomber nella gara d’andata persa 4-2 a Berna il 12 ottobre 1994. Ma storica si rivelò pure la rivincita andata in scena 30 anni fa, a Göteborg. Ricordate? Prima che sul rettangolo verde maturasse uno 0-0 utile unicamente alla causa elvetica, gli inni nazionali furono accompagnati da un gesto clamoroso. Dopo averlo nascosto, Alain Sutter srotolò insieme ai compagni uno striscione con la scritta «Stop it Chirac», denunciando frontalmente la ripresa dei test nucleari nel Pacifico annunciata dal presidente francese. Dahlin ha solo ricordi sommari di quel match che di fatto compromise la qualificazione della Svezia. «Dopo le imprese del 1992 e del 1994 - conclude - la squadra perse energia e slancio, forse ritardando un rinnovamento necessario». L’aura della generazione dorata, invece, è intatta da allora.