Quando il dopo Conte faceva rima con Beppe Sannino: «Ne vado ancora orgoglioso»

Il suo arrivo al Comunale ha riacceso la speranza. Sguardo e metodi decisi, idee chiare e fisico asciutto, Giuseppe «Beppe» Sannino ha accettato di rimettersi in gioco a Bellinzona. La sua carriera, e i molteplici scossoni che l’hanno segnata, meritano tuttavia riflessioni più ampie. Riflessioni che abbiamo condiviso con il mister di Ottaviano.
Signor Sannino, mister, partiamo da una ricorrenza. Ci dica lei se amara o meno. Dieci anni fa, correva il 1. novembre per la precisione, occupava per l’ultima volta una panchina di Serie A, in qualità di allenatore del Carpi. Poi l’esonero. E un distacco rimasto tale.
«Ma no, nessuna amarezza. Sia perché, da allora, non ho mai smesso di allenare. Sia perché ritengo la categoria importante, ma non così importante. E ciò nonostante io abbia guidato squadre nei massimi campionati di Ungheria, Grecia e Libia. Poi, certo, da tecnico italiano è stata la Serie A a conferirmi un determinato spessore. Il calcio vero lo associo a quel torneo. Senza tuttavia avvertire il bisogno, ora, di guardare nello specchietto retrovisore con nostalgia. E aggiungo un altro motivo. Sono sempre stato un allenatore fuori dagli schemi, che si è costruito dal basso, vincendo tanti campionati prima di raggiungere l’apice. E a 68 anni, molto onestamente, non ho alcuna voglia di finire in pasto ai leoni da tastiera che - poco importa il livello, dall’Eccellenza alla A - sono pronti a dipingerti come vogliono, infangando la tua figura ancor prima che si metta al lavoro. Di una cosa, tornando alla domanda, vado comunque fiero. Aver regalato al Carpi il primo successo in Serie A della sua storia, contro il Torino».
Tra i soprannomi che le hanno appiccicato negli anni, spicca quello di «sergente di ferro». Nelle scorse ore ne è stato licenziato un altro: Ivan Juric, oramai ex tecnico dell’Atalanta. Più sorpreso di questa decisione o del fatto che la Dea avesse puntato sulla controversa figura del croato?
«Più sorpreso dell’esonero. Il suo ingaggio, in effetti, s’inseriva perfettamente in un contesto - quello italiano appunto - influenzato dalle mode. Il problema è che un allenatore può avere tanti sosia, ma quello vero è uno solo. Quando si è separata da Gasperini, l’Atalanta ha voluto a tutti i costi coltivarne credo e metodi con un profilo affine. E Juric, da allievo del Gasp, rispondeva a questo criterio, come ora avviene con il suo sostituto Raffaele Palladino, da giocatore pure plasmato da Gasperini, e come forse accadrà di nuovo con un altro ex Francesco Modesto. Però ripeto: non condivido la tempistica dell’allontanamento. Juric forse non ha vinto molte partite, ma ne ha perse solo due ed era reduce dalla vittoria a Marsiglia in Champions. Purtroppo lo screzio con Lookman non lo ha aiutato, alimentando al contrario il rumore all’interno dello spogliatoio e attorno alla società».
A proposito di regole ferree, rigore tattico e aggressività. Senza scomodare Gianni Brera, quando Beppe Sannino legge i primi quattro risultati dell’undicesima giornata di Serie A - nell’ordine: 1-0, 0-0, 0-0, 0-0 - è un osservatore felice?
«La riflessione è una soltanto. Tutti pensano che il campionato italiano sia scarso. E invece, semplicemente, è il più difficile al mondo. Nonché il migliore sul piano tattico. Perché gli zero a zero, dunque: perché si tratta di incontri e avversari studiati, di strategie lavorate al dettaglio per arginare chi si ha di fronte. E ora le faccio io una domanda: da addetto ai lavori, preferisce commentare un match che finisce 1-0 o 6-5? Quale dei due risultati le imporrebbe maggiori interrogativi? Ecco. Ed evito di dilungarmi sulla nuova Champions League».
Fra le squadre che nell’ultimo turno non sono riuscite a trovare la via del gol figura pure il Como, che con il suo giovane e visionario allenatore Cesc Fabregas è però ritenuto una sorta di oasi nel deserto italiano. In qualità di varesino acquisito le chiedo un parere. E pure se rosica un po’.
«Macché rosicare. Mai fatto in vita mia. Anzi, ho diversi amici che seguono i lariani e da oramai diverso tempo godono di una città trasformata, calcisticamente parlando. Detto questo, il Como è un’oasi felice perché può contare sulla società più forte della Serie A, la quale ha dato pieni poteri a Fabregas. Un allenatore che, quindi, gode di una fiducia totale e che con gli enormi mezzi finanziari a disposizione ha fatto un mercato intelligentissimo. Lasciamo stare Morata, che da ex compagno di Cesc è in ogni caso il tipo di giocatore che è ancora disposto a morire per chi lo guida. Per il resto il club ha puntato sui migliori giovani in circolazione. E per un tecnico a suo volta giovane, questo genere di materiale umano - intenzionato a emergere - può aprire un mondo di idee. Per il Como, comunque, il difficile arriva adesso. Non è più una sorpresa e di conseguenza le aspettative crescono e necessitano di nuove conferme».
Torniamo alle esperienze in Serie A, e dunque a molto prima di sorprendere l’Aarau capolista di Challenge League: con le sue formazioni ha fermato, e in alcuni casi battuto, tutte le big: Inter, Juventus, Milan, Roma, Lazio, Napoli e Atalanta. Insomma, le squadre di Sannino si esaltano con le grandi?
«Le squadre di Sannino non devono esaltarsi contro le grandi. Le squadre di Sannino devono avere un DNA. E nello sviluppare quello del Bellinzona sono solo agli inizi. La vittoria con l’Aarau, per intenderci, non ha distolto la mia attenzione dalle cose che non hanno funzionato in campo e sulle quali ho subito posto l’accento. Penso al possesso palla, per esempio: mica potremo sempre correre come degli ossessi per 90’. Il Bellinzona deve anche imparare a giocare a calcio. Ciò che non dovrà mai venire meno, ad ogni modo, è il giusto atteggiamento. Ricapitolando: le squadre di Sannino, da sempre, rompono le scatole (usa altre parole, ndr.) a ogni avversario. E vi assicuro che questa caratteristica è stata decisiva per la mia ascesa in Serie A. A Siena, nel 2011, non sono arrivato per caso. Ma perché la società ha valutato bene chi potesse sostituire al meglio Conte. Mi rivedo molto in Antonio ed essere stato scelto per proseguirne il lavoro - poco importa la Serie A - è la cosa che mi ha reso più orgoglioso».
Lei in Italia ha allenato diversi campioni e talenti. Limitiamoci agli attaccanti e a un piccolo gioco. Deve comporre con il tanto caro 3-5-2 e ha a disposizione Ilicic, Dybala, Miccoli, Rosina, Calaiò, Pellissier, Borriello, Destro, Brienza ed Hernandez. Chi gioca davanti e perché?
«No, prima una premessa. Perché lei mi cita il 3-5-2, ma il mio primo modulo è stato il 4-4-2 di Arrigo Sacchi. Adattarsi, imparare ed evolvere, una volta arrivato in Serie A, è però stato cruciale. Gli integralisti, a un certo livello e alla guida di determinate squadre, non sopravvivono. E aver saputo modulare il Siena, ad esempio, per battere il 4-3-3 rivoluzionario di Luis Enrique, beh, è qualcosa che non dimentico».
Okay, ma chi fa giocare davanti nel 3-5-2 per non sbagliare la partita?
«Anche se non sono centravanti puri, dico Ilicic e Miccoli».
Ammesso e non concesso che occorrerà verosimilmente una vittoria a San Siro per agganciare la Norvegia in vetta al girone, per qualificarsi direttamente al Mondiale 2026 l’Italia avrebbe dovuto segnare molte più reti. E così si parla già degli spauracchi Svezia e Macedonia del Nord. Esagerando?
«Eccome. Conosco bene Gattuso. E Gennaro, in questo momento, pensa tutto fuorché allo spareggio di marzo. Non deve vendere articoli e giornali. Prima c’è la Moldova. Poi la Norvegia. E, differenza reti o meno, una vittoria al Meazza aprirebbe nuovi spiragli. Forti di un chiaro successo, gli azzurri non dovrebbero infatti temere né la Svezia, né la Macedonia. O qualsiasi altro avversario».
Il suo Bellinzona di gol ne ha appena rifilati cinque all’Aarau, cogliendo finalmente il primo successo stagionale. Passo indietro: francamente, a 68 anni, chi gliel’ha fatto fare di tornare al Comunale in questa situazione per certi versi disperata?
«Dopo aver salvato il posto in Challenge League la scorsa stagione, non ho mai smesso di seguire i granata. E sarò sempre riconoscente a Pablo Bentancur, che si è affidato a me in primavera. La nuova proprietà, come giusto che sia, ha inizialmente voluto puntare sui suoi uomini, per poi rifarsi viva in una situazione difficile. Oggettivamente più difficile rispetto a quella dell’ultimo campionato. E se ho accettato è perché mi piace il calcio. Perché non smetto di voler capire le sfumature di questo sport, in uno o nell’altro angolo del pianeta. E anche quando sembra che ci sia tutto da perdere, è bello provare a creare qualcosa. E non mi si fraintenda, sono stato chiaro pure con la dirigenza: a Bellinzona - sino all’ultimo minuto dell’ultima giornata - l’obiettivo dev’essere la salvezza».
Risultati e ottimismo a parte, il Bellinzona non dispone ancora della licenza di gioco per il prosieguo della stagione. Avverte più precarietà alle dipendenze della proprietà di Juan Carlos Trujillo o ne ha avvertita di più a Palermo, sotto la presidenza Zamparini, dove pure venne richiamato?
«Guai a toccarmi Zamparini. Il mio presidente. La nazionale italiana si è nutrita di giocatori passati dal Palermo. Per tacere dei campioni stranieri. Poi, certo, aveva questo difetto legato agli allenatori. E però, di nuovo, dal Barbera sono transitati diverse figure poi divenute centrali. Quando venne esonerato nel, non a caso, telefonai a Gattuso e gli dissi: “Vedrai che diventerai un grande tecnico”».



