Qatar2022

Quell’inscindibile legame che unisce sport e politica

Sin dal sorteggio il gruppo B di questi Mondiali ha suscitato più clamore in ottica geopolitica che sportiva - In vista dell'odierna sfida tra USA e Inghilterra ne parliamo con lo storico dell'Università di Bologna Nicola Sbetti
Un iconico scatto effettuato in occasione della sfida tra Stati Uniti e Iran ai Mondiali del 1998, densa di significati extra-calcistici. © Ruters/Matthew Ashton
Nicola Martinetti
25.11.2022 06:00

Nicola Sbetti, partiamo dal match odierno. La sensazione è che un incontro tra Inghilterra e Stati Uniti, a prescindere da contesto e valori del momento, in fondo non è mai banale. Concorda?

«Sì, e al proposito mi viene da sorridere perché le statistiche, quantomeno per ciò che concerne la Coppa del Mondo, sono davvero curiose. Quella inglese - restando sul piano puramente calcistico - è una potenza indiscussa. Sono i maestri del gioco, hanno anche vinto un Mondiale. Eppure negli unici due precedenti iridati contro la selezione a stelle e strisce non sono mai riusciti a imporsi. Rimediando una figuraccia shock da strafavoriti a Brasile 1950 (1-0 per gli USA) e un pareggio (1-1) a Sudafrica 2010. Nel primo caso, peraltro, la leggenda narra che in patria alcuni giornali inglesi riferirono di un 10-0 rifilato agli americani, poiché ritenevano inconcepibile una sconfitta al cospetto dei “cugini”».

Oggi è giusto affermare che la rivalità sportiva tra questi due Paesi rimane sentita?

«Sì e no. Storicamente vi sono stati momenti in cui l’antagonismo sportivo tra queste due realtà era più accentuato. Penso in particolare all’episodio di massima tensione, che occorse alle Olimpiadi di Londra del 1908: il portabandiera statunitense, l’atleta Ralph Rose, si rifiutò di abbassare il vessillo davanti al palco reale. Un grande smacco per l’epoca. Vi era però anche un contesto globale differente: gli USA erano infatti un Paese emergente sia sul piano sportivo, sia su quello politico ed economico. Al contrario, quella inglese era la più grande potenza al mondo. Considerato anche il passato comune, era dunque quasi inevitabile che a quei Giochi si andasse oltre le discipline. Da allora i due Paesi sono rimasti interconnessi, anche se col passare degli anni il loro status si è sostanzialmente invertito. Oggi, per chiudere il cerchio, quando si affrontano in ambito sportivo il focus rimane su quello. Ma il sentimento di rivalità tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, tra Londra e Washington, permane. E gli episodi che lo sottolineano del resto non mancano. Penso, tanto per citarne uno, alla discussa esultanza della calciatrice statunitense Alex Morgan nella semifinale contro l’Inghilterra al Mondiale del 2019. Quando mimò il gesto di bere una tazza di té, mandando gli inglesi su tutte le furie».

Allarghiamo il discorso: cosa ha pensato, anche e soprattutto in chiave geopolitica, quando il sorteggio di questo Mondiale ha raggruppato nello stesso girone Inghilterra, Iran e Stati Uniti?

«Beh, innanzitutto che per poco non ci scappava persino l’Ucraina. Scherzi a parte pure il Galles, quarta nazionale poi inserita nel gruppo B dopo i playoff, offre interessanti spunti calcistici e non, considerati gli storici rapporti con l’Inghilterra. Detto ciò, penso che vi sia da fare una doverosa premessa: la politica, nello sport, è sempre presente. Per rendersene conto, banalmente, basta guardare quanto sta accadendo in Qatar in questo momento. Ma gli esempi si sprecano. Mi piace fare quello del presidente francese Emmanuel Macron, che a Russia 2018 sfruttò il cammino dei Bleus per rafforzare la sua immagine. Mentre al contrario quest’anno, visti i buoni rapporti con il già citato Qatar, ha chiesto alla Nazionale di “non politicizzare lo sport” mantenendo un profilo basso su diversi temi. Un paradosso. Parlando di leader, è inoltre interessante sottolineare il fatto che il presidente statunitense Joe Biden ha scelto di girare un video che lo ritrae mentre - al telefono - augura buona fortuna alla sua selezione. Evidenziando così la crescente attenzione dell’amministrazione verso il calcio, oggi infine uno sport degli “americani”, e non più degli immigrati giunti da altrove. Un intervento che fa il paio con la presenza in Qatar del Segretario di Stato Antony Blinken, anche per rafforzare i rapporti col Paese ospitante a côté del torneo».

Non ha mai creduto che vi fosse - o che vi sia ancora - la possibilità che in questo gruppo B la politica possa prendere il sopravvento sul calcio?

«Se nelle scorse settimane USA e Regno Unito si fossero mosse attivamente per forzare un cambio di regime in Iran, a fronte delle violenze che tuttora dilaniano lo Stato asiatico, allora sì. In quel caso vi sarebbero stati i presupposti per una crescente tensione e dei boicottaggi. Al momento, invece, mi sembra un’eventualità meno probabile. Resta comunque il fatto che nei prossimi giorni, e mi riferisco al caso specifico dell’Iran, quanto sta accadendo in patria rimarrà centrale e assorbirà l’attenzione della Nazionale. Anche perché a certi livelli, in questi casi, non prendere una posizione equivale a prenderne una. L’inno non cantato, al proposito, rappresenta una protesta soft. L’unico compromesso possibile per uscirne illesi tra incudine (la piazza) e martello (le autorità)».

Nessuna preoccupazione dunque in vista del loro match contro gli USA alla terza giornata, potenzialmente decisivo per le sorti delle due selezioni?

«Non sarà una partita come le altre. Ma ho l’impressione che sul piano politico, visto che i rispettivi governi sono focalizzati sulle magagne interne, stimolerà più che altro una narrativa simile a quella del precedente di Francia 1998. Quando, cioé, la sfida tra queste due squadre venne usata dalle autorità per lanciare segnali distensivi tramite un’operazione di diplomazia pubblica. I cui effetti si videro sugli spalti e in campo. Le due squadre, ad esempio, posarono insieme per la foto di rito».

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