Calcio

Svizzera-Kosovo: festa del calcio o bomba a orologeria?

L’amichevole del 29 marzo, in programma a Zurigo, costituirà una prima storica - Alcuni rossocrociati riabbracceranno le proprie origini: il timore è che sulle tribune e forse in campo lo sport lasci spazio alla propaganda - Pierluigi Tami: «I Mondiali del 2018? Insensato evocarli»
Xherdan Shaqiri e Granit Xhaka sono due simboli della Nazionale svizzera: entrambi sono nati in Kosovo. © Keystone/Jean-Christophe Bott
Massimo Solari
19.01.2022 06:00

Il 29 marzo la Nazionale affronterà in amichevole il Kosovo. Urca. Sì, perché oltre a essere una prima storica, la sfida contro i Dardani assomiglia tanto a un azzardo. «Non ce la faccio, troppi ricordi» direbbe Giovanni Storti. L’avversario scelto dall’ASF, infatti, riporta a galla episodi delicati. Tesi, anche. Storie che nel recente passato hanno impantanato la stessa Federazione, scaraventando alcuni giocatori di spicco sul banco degli imputati. Innocenza e colpevolezza hanno finito per mischiarsi, prestando il fianco alla confusione. Al giudizio affrettato. Con il lato sportivo travolto dagli eventi e da universi - politica in primis - subdoli. In ballo, d’altronde, vi sono valori che trascendono la giocata in campo. Il risultato. Qui si parla di identità e, nello specifico, di ferite finite sui libri di storia. Guerra e sangue. Come quelli che hanno segnato il Kosovo tra il 1998 e il 1999. L’abbraccio con il nostro Paese, in fondo, è nato allora. Quando decine di migliaia di persone - alle prese con un conflitto fratricida che coinvolse il popolo serbo - si rifugiarono in Svizzera. Famiglie che di cognome facevano altresì Shaqiri, Xhaka, Behrami. O ancora Zeqiri e Imeri. Fra i simboli del passato, del presente e del futuro rossocrociato. Eroi dei due mondi.

Quell’aquila che aleggia

Il legame tra Svizzera e Kosovo, qualora non si fosse capito, è per certi versi vitale. E, soprattutto, ha un’accezione positiva. A Pristina e dintorni, non a caso, quella rossocrociata è la seconda selezione alla quale si fa il tifo. «Per questo, a mio avviso, a Zurigo si assisterà a una festa del calcio» afferma senza esitazione Pierluigi Tami. Il direttore delle squadre nazionali usa parole semplici: «Credo che i nostri giocatori di origini kosovare saranno molto felici di disputare questo test. Una partita che ritengo attraente, poiché coinvolge una popolazione presente in grandi numeri in Svizzera. Ci sarà un ambiente speciale, pandemia permettendo, da tutto esaurito». Certo. Tutto molto bello. Ma, vien da chiedersi, il Letzigrund riuscirà a essere impermeabile alle strumentalizzazioni? Tradotto: non c’è il rischio che il match si trasformi in un pretesto per ostentare l’appartenenza a un’etnia - quella degli albanesi del Kosovo - già finita al centro delle polemiche? «Non intravedo particolari pericoli» evidenzia Tami. «A maggior ragione perché è tutto fuorché nostra intenzione lanciare messaggi al di fuori dello sport. In questo senso, confido che pure il pubblico sia in grado di interpretare e dare il giusto valore all’evento». Eppure le trappole sembrano disseminate un po’ ovunque. Uno striscione provocatorio. Una bandiera sbagliata. L’esultanza soffocata o quella allusiva. «Tracciare un parallelismo con quanto accaduto ai Mondiali del 2018, in occasione della sfida con la Serbia, mi sembra però insensato» sottolinea Tami. «Ripeto, non possiamo e non potremo controllare cosa avviene attorno a noi. Ma se la propaganda politica farà capolino allo stadio, dovremo essere bravi a non farci influenzare».

PIERLUGI TAMI: Se la propaganda politica farà capolino allo stadio, dovremo essere bravi a non farci influenzare

«Perché mai boicottarli?»

E a proposito di azioni e reazioni. Se le celebri esultanze dell’aquila bicipite occupano una brutta pagina del calcio rossocrociato, Svizzera-Irlanda dello scorso 9 ottobre era stata teatro di un altro episodio controverso, risoltosi però senza gravi conseguenze. Ricordate? Un tifoso, dopo aver fatto invasione di campo, aveva appoggiato sulle spalle di Xherdan Shaqiri una giacca con lo stemma dell’Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UCK), un’organizzazione paramilitare kosovaro-albanese inserita nel 1998 nella lista ONU delle organizzazioni terroristiche. Il comportamento di «XS», fortunatamente, era stato irreprensibile. Il giocatore non si era scomposto. «È inaccettabile che persone abusino di uno stadio da calcio, o in questo caso di un’intervista di un giocatore dopo la partita, per fare propaganda politica» aveva da parte sua commentato l’ASF, prendendo ufficialmente posizione. Appunto. Perciò insistiamo. Scegliere il Kosovo come sfidante non è andare un po’ a cercarsela? «Assolutamente no» replica Tami. «Non era scontato, è vero. Presto o tardi, comunque, sarebbe capitato. Ma continuare a ignorare o boicottare questo avversario, schiavi della paura, avrebbe rappresentato uno sgarbo ancora maggiore». La scelta sul Kosovo è caduta già in dicembre. Senza alcun tipo di coinvolgimento della squadra. «I singoli in ogni caso conoscono bene l’importanza di un comportamento irreprensibile» commenta il direttore delle squadre nazionali: «Il mio ruolo, ad ogni modo, non cambierà in vista della gara del 29 marzo. I giocatori sono molto in chiaro sui valori cardine della Nazionale. L’Europeo era stata l’occasione per discuterne. Vogliamo essere rappresentativi di tutti i nostri tifosi, indipendentemente dal loro orientamento».

Pierluigi Tami, 60 anni. © Keystone/Georgios Kefalas
Pierluigi Tami, 60 anni. © Keystone/Georgios Kefalas

«Che bello essere cercati dall’Inghilterra»

La Svizzera non se la vedrà solo con il Kosovo. Al netto dei sentimenti, l’amichevole di grido è un’altra. Quella contro l’Inghilterra. Il 26 marzo a Londra. Nel teatro del calcio: Wembley. «A cercarci è stata la federazione inglese, negarsi era difficile» spiega Pierluigi Tami. «Direi che si tratta di un bel riconoscimento. E, dal nostro punto di vista, di una soluzione ottimale. Sfidiamo la finalista dell’ultimo Europeo, una selezione in crescita. Insomma, un ottimo banco di prova in vista degli impegni di spessore che ci attendono in Nations League tra giugno e settembre (contro Spagna, Portogallo e Repubblica Ceca, ndr.)». I Mondiali in Qatar, quelli, sembrano invece più lontani. «Diciamo che non abbiamo ragionato in base all’appuntamento del prossimo novembre» conferma il direttore delle squadre nazionali. «In realtà - prosegue - per marzo non era previsto un vero piano. Obiettivamente, era infatti plausibile che avremmo dovuto giocarci la qualificazione alla Coppa del mondo ai playoff». E invece no, la formazione di Murat Yakin è stata splendida, sorpassando l’Italia all’ultima curva. «La prossima finestra internazionale sarà preziosa per insistere sull’amalgama e la progressione della squadra» indica al proposito Tami. I rossocrociati, prima di misurarsi con Inghilterra e Kosovo, si prepareranno al sole. A Marbella, dal 21 marzo. «Proprio settimana scorsa abbiamo visitato le strutture e i campi che ci ospiteranno. Il livello è alto. Logisticamente, inoltre, non ravviso particolari problemi» osserva Tami: «Riunire giocatori che militano in club di mezza Europa in Spagna o a Zurigo cambiava poco». E il programma delle amichevoli, lui, avrebbe potuto essere diverso? «I contratti sono stati firmati solo negli scorsi giorni, ma la situazione era già chiara in dicembre» rileva il dirigente ticinese. «Abbiamo valutato diversi scenari. Sul tavolo c’erano anche alcuni inviti per dei mini-tornei da disputare in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi Uniti». Un’opzione attrattiva, no? Solo fino a un certo punto. «Il programma con i vicecampioni d’Europa e l’emergente Kosovo ci soddisfa per più ragioni. Sportive, logistiche e, sì, di natura finanziaria». Va da sé, resta da capire se l’appuntamento casalingo del 29 marzo - in agenda al Letzigrund di Zurigo - potrà essere organizzato (e capitalizzato) senza eccessive limitazioni dettate dalla pandemia.

I kosovari in Svizzera sono circa 200mila

A seguito della guerra del Kosovo (1998-1999), 65.000 persone si sono rifugiate in Svizzera. Oggi i kosovari che risiedono nel nostro Paese sono circa 200.000, pari a uno su dieci. Di più: si stima in Svizzera una persona su quaranta sia di lingua e cultura albanese. La Confederazione, con in testa l’ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey, fu tra le prime a promuovere l’indipendenza del Kosovo. Un passo che si è concretizzato con la dichiarazione del 17 febbraio 2008. A oggi, 93 membri dell’ONU (non tutti quindi) riconoscono tale statuto. La Svizzera è presente in Kosovo, con i militari della Swisscoy, che partecipano alla KFOR guidata dalla NATO dal 1999.