Calcio

Tra l'Inter e il Barcellona riecco il fantasma di Mourinho

Questa sera va in scena l’andata della semifinale di Champions tra blaugrana e nerazzurri - Nel 2010, l’epica prestazione fornita in trasferta dagli uomini di Mou valse l’atto conclusivo - Mai come oggi l’ombra del portoghese e del «triplete» insidiano Simone Inzaghi, a rischio «zero tituli»
La celebre esultanza di José Mourinho al Camp Nou, dopo l’indolore sconfitta per 1-0 che regalò la finale di Champions League all’Inter. © AP/Antonio Calanni
Massimo Solari
30.04.2025 06:00

Di colpo è uscito dall’ombra. E, di nuovo, si è reincarnato in figura ingombrante. Una dipendenza per la quale non esiste terapia. Sì, José Mourinho sembrava oramai finito in un angolo, quasi buffo nei tentativi di mantenere in vita un personaggio e una narrazione che non funzionano più. Dalle immancabili tesi complottiste sull’operato degli arbitri, al naso tirato all’allenatore del Galatasaray Okan Buruk, sin qui migliore del suo Fenerbahçe sia in Coppa, sia in campionato. Più normale che «special», insomma, e persino costretto a prendersela con la vitalità del giovane collega Mattia Croci-Torti, dopo un preliminare estivo andato così così.

Eppure, in queste ore non si fa che parlare del suo capolavoro. Della sconfitta più dolce, e allo stesso tempo epica, nella storia dell’Inter. Con la semifinale di Champions League tra Barcellona e Inter alle porte, rispolverare la struggente impresa del 28 aprile 2010 è stato inevitabile. Al trattato di pragmatismo tattico e sofferenza sportiva plasmato da quei nerazzurri, i nerazzurri di Mou, si sono riallacciati un po’ tutti. Non ha resistito L’Équipe, rievocando il miracolo e l’opera d’arte del tecnico portoghese; non è stato da meno The Athletic, ricordando la gara di ritorno volutamente vissuta in trincea dai milanesi, dopo il 3-1 maturato sette giorni prima a San Siro e a fronte di un’espulsione prematura che ha elevato a leggenda la resistenza di dieci uomini: «74 passaggi e una conclusione, per una lezione magistrale». Psicologia compresa. Solo i maggiori quotidiani spagnoli, comprensibilmente, hanno preferito sorvolare. Il fantasma di Mourinho, dicevamo, era però già planato sull’Estadi Olímpic Lluís Companys.

Dagli elogi alla polvere

Più che l’Inter, a dover convivere con un passato e un predecessore illustre, sarà Simone Inzaghi. L’uomo che sognava il triplete, che lo aveva venduto al popolo nerazzurro con un semplice gesto della mano, ma che ora rischia di ritrovarsi con zero tituli. Come spesso accade nel mondo pallonaro, il mister italiano è passato da un florilegio di attestazioni di stima alla polvere. Dall’arguta e applaudita eliminazione del Bayern Monaco, nei quarti, a una «crisi» declinata in sole tre partite, comunque sufficienti per vanificare (o quasi) due obiettivi stagionali su tre. Non è favorito, e però Inzaghi si gioca molto, forse tutto, contro il Barcellona. E lo fa con un gruppo che, soprattutto per quanto concerne lo spessore delle seconde linee, ha poco a che vedere con l’Inter di Mou. Sponda nerazzurra, non a caso, ci si aggrappa a rientri di Dumfries e Thuram. E, in questo caso con termini di equiparazione più sensati, al sistema difensivo meno vulnerabile della Champions League 2024-25, oltre che al cinismo di alcuni eletti.

Irretire Pep

Difficilmente, ad ogni modo, verrà riproposta la trama del 2010. Banalmente, perché si tratta della gara d’andata. E poi alla luce di una proposta di gioco che, a ben guardare, ha saputo adattarsi al palcoscenico più importante e a chi lo frequenta sino a primavera inoltrata. Come Mourinho, all’epoca esaltato proprio in contrapposizione al giochismo del grande rivale sulla panchina blaugrana, pure Inzaghi è infatti stato capace di irretire Pep Guardiola e il Manchester City, sua nuova creatura. In più di una circostanza e, per l’appunto, facendo evolvere l’estremo realismo dello «Special One». Lo dimostrano la finale del 2023 a Istanbul e lo zero a zero dello scorso settembre all’Etihad Stadium. Il problema? Beh, certo, la vittoria mancata. La sublimazione. Il risultato. La cosa più importante. La medaglia di José, l’ostacolo più grande per Simone a corto termine.

Da Leo Messi a Lamine Yamal

Per emergere eroicamente dal Camp Nou, l’Inter di Mourinho aveva dovuto neutralizzare un giocatore su tutti: Lionel Messi, proprio lui. Il pressing sull’argentino era stato asfissiante. Non un marcatore designato, a ripromettersi di non far passare la Pulce - a seconda dei suoi movimenti - era stato l’intero collettivo nerazzurro. Ebbene, per certi versi ci risiamo. L’osservato speciale al Montjuic, a questo giro, è Lamine Yamal. Per l’astro spagnolo, oltretutto, il primo atto della semifinale di Champions ha un sapore speciale. Non ancora maggiorenne, l’ala destra taglierà il traguardo delle 100 partite in maglia blaugrana. Fenomeno di precocità, Yamal collezionerà il 22. gettone nella massima competizione europea per club. Quindici anni fa, Messi ne aveva disputate il doppio, conquistando la prima di quattro coppe dei campioni nel 2009. Già. Al momento di contendere all’Inter una nuova finale, però, Leo aveva quasi 23 anni. E - per rendere la portata del raffronto - le gare vissute con il Barça all’età attuale di Yamal erano solo sette.

«Ma io non mi paragono con nessuno, e ancora meno con uno come Messi» ha tenuto a precisare il diretto interessato alla vigilia della sfida con l’Inter. «Io provo solo a migliorarmi, a godermi il mio cammino. Leo lo ammiro perché è stato il miglior giocatore della storia, il resto lo lascio a voi». Ritenere che l’epoca del Diez argentino abbia trovato una degna erede, per esempio. «No, questa è l’epoca del Barça, non di Lamine».

Generazioni a confronto

Ad affrontarsi stasera, al proposito, saranno due formazioni agli antipodi. Due generazioni di calciatori, appunto. Da un lato gli over 35 Sommer, Acerbi, Mkhitaryan e - se titolare - Darmian. E c’è pure Arnautovic, in panchina nel precedente del 2010. Dall’altra una rosa con 25,1 anni di età media, quattro in meno rispetto all’avversario e pure orfana del vecchietto Lewandowski. E ad aprirsi in queste ore, inesorabile, è quindi stato il dibattito sulla possibile fine di un ciclo, il primo con Inzaghi sulla panchina nerazzurra, e l’alba di un altro, quello di Hansi Flick in Catalogna. A confermare o sbugiardare questa fragile lettura, va da sé, sarà l’esito del doppio scontro. Dopo tutto, nel caso di Mourinho accadde l’opposto. Con la clamorosa impresa del Camp Nou quale premessa a un addio glorioso. E ingombrante, oggi più che mai.

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