«Uno scudetto tra Juve e Lazio e le notti magiche di 30 anni fa»

Il 25 giugno compirà 60 anni. Nel 1990 festeggiò il suo 30. compleanno segnando un gol all’Uruguay negli ottavi di finale dei Mondiali casalinghi. È Aldo Serena, ex attaccante di Inter, Juventus, Milan e Torino, oggi commentatore per Mediaset. Con lui parliamo della ripresa della Serie A (si torna in campo stasera) e delle «notti magiche» di Italia ’90.
Signor Serena, quanta voglia di calcio percepisce in Italia?
«La finale di Coppa tra Napoli e Juventus, vista da 10 milioni di persone, lascia ben sperare. Personalmente, negli ultimi tre mesi ho fatto fatica ad interessarmi al calcio. La dura realtà e l’eccezionalità degli eventi, spesso drammatici, mi hanno spinto a seguire soprattutto i telegiornali e gli aggiornamenti sul coronavirus. Nei giorni scorsi, però, il pallone è tornato a rallegrarmi e a regalarmi un po’ di leggerezza».
Ne vale dunque la pena, anche senza il pubblico negli stadi?
«È diverso, infatti ho faticato a seguire le prime partite di Bundesliga, resistendo mezz’ora al massimo. Con la Coppa Italia, invece, ho avvertito dei brividini. Non mi sono piaciute le finte coreografie sulle tribune, ma le partite mi hanno tenuto incollato allo schermo. Capisco che non tutti gradiscano questo spettacolo. Ma io ho trascorso una vita nel calcio e lo apprezzo anche così».
Se fosse ancora un calciatore, con quale stato d’animo affronterebbe la ripartenza?
«Mi preoccuperebbe l’incognita della preparazione atletica. Si è visto anche nelle tre gare di Coppa Italia: giocatori di alto livello hanno sbagliato cose apparentemente facili, proprio perché la loro condizione non era ottimale. Non avendo avuto un percorso di avvicinamento a partite così importanti, non si può essere al top. Anche uno come Cristiano Ronaldo, se non è supportato da una forma adeguata, può commettere degli errori banali».

Da qui al 2 agosto in Italia ci sarà calcio quasi tutti i giorni: ne risentirà la qualità?
«Nelle prime partite probabilmente sì. Credo che assisteremo a delle sorprese. E anche a degli infortuni – muscolari e di contatto – dovuti alla scarsa condizione atletica. Nei contrasti si rischia di arrivare sempre un po’ in anticipo o un po’ in ritardo. L’occhio c’è, ma la gamba non risponde come dovrebbe. Chi vanta una rosa ampia e di qualità, avrà più chance. Su tutte la Juventus, che ha più alternative di alto livello rispetto alle sue rivali in Italia».
Le semifinali e la finale di Coppa Italia cos’altro hanno detto?
«Che bisogna essere lungimiranti e saper gestire momenti come questi. Il Napoli di Gattuso lo ha fatto bene, vincendo il trofeo con una strategia molto realistica, lasciando che la Juve si sfogasse all’inizio. La squadra di Sarri ha avuto un po’ di presunzione: è partita forte, come se potesse contare sul 100% delle energie. Il Napoli ha fatto le barricate, attendendo che la tempesta passasse. Dopo 25 minuti i bianconeri hanno abbassato il ritmo e il Napoli è venuto fuori con più lucidità, anche nei rigori».


La lezione qual è?
«Che non si può giocare come si vorrebbe. Bisogna fare i conti con una condizione approssimativa che non permette di andare a mille per 90 minuti, altrimenti si rischiano brutte figure. A maggior ragione ora che arriverà il vero caldo: presto si giocherà con 32-33 gradi e con tassi di umidità elevati».
La lunga pausa potrebbe aver avvantaggiato qualcuno?
«Chi ha svolto una preparazione leggera, con carichi di lavoro non troppo elevati, potrebbe approfittarne. Per lo scudetto, però, non vedo alternative a Juventus e Lazio. L’Inter è già molto staccata. Però le polemiche che stanno piombando addosso alla Juve dopo il k.o. in Coppa potrebbero aumentare la pressione su un ambiente che non è abituato a perdere. E che si era già visto strappare la Supercoppa proprio dalla Lazio. I biancocelesti, sotto il profilo psicologico, hanno forse un vantaggio. Un punto di ritardo è poco, inoltre la squadra di Simone Inzaghi, pur non avendo una panchina molto lunga, sa essere concreta anche quando è meno brillante. Può contare su giocatori che risolvono le partite su punizioni e calci d’angolo. E in condizioni difficili sotto il profilo fisico, le palle ferme potrebbero pesare».

Al quarto posto c’è l’Atalanta, simbolo di una Bergamo colpita al cuore dalla COVID-19. La squadra di Gasperini saprà portare un po’ di spensieratezza in città?
«Già quando era al Genoa, Gasperini faceva giocare la sua squadra con dei ritmi assurdi. A Bergamo il suo calcio si è ulteriormente evoluto. Allenatore, società e tifosi hanno raggiunto una simbiosi, creando qualcosa di unico. Quando vedo giocare l’Atalanta mi diverto sempre. Rischia un po’, non è sempre equilibrata, ma mi piace questo calcio propositivo, aggressivo, fatto di generosità e ritmo. Un calcio che non sembra neanche italiano. Io non scommetto mai, ma in dicembre ho puntato dieci euro sull’Atalanta vincitrice della Champions. Con questa nuova formula (la «final eight» di Lisbona, ndr.), potrebbe avere ancora più possibilità».
Che dire, invece, di Roma e Milan. Cosa possono ancora chiedere a questo finale di campionato?
«I due club sono legati da una situazione societaria nebulosa. La Roma ha mandato via il ds Petrachi e Pallotta vuole vendere. La squadra ha dei punti fermi importanti a partire da Fonseca, un allenatore molto bravo, didattico, che sa insegnare calcio e proporre un gioco veloce e verticale. I problemi societari, però, potrebbero condizionare i giocatori e la campagna acquisti estiva».
E il Milan?
«Non credo che Elliott voglia cedere il club, ma le incognite non mancano: Boban è andato via e il futuro di Maldini resta incerto. Inoltre c’è già un nuovo allenatore all’orizzonte, nonostante Pioli stia facendo abbastanza bene e andrebbe considerato per la conferma. La campagna acquisti rossonera non è stata fruttuosa. Il Milan ha speso, sì, ma a parte Hernandez ha indovinato poco. Rebic può rivelarsi utile e Ibrahimovic può ancora fare la differenza, benché a 38 anni non abbia più la mobilità di un tempo. Bisogna però invertire la tendenza, azzeccando qualche giovane con il lavoro di scouting. Ma serve anche qualche innesto di livello».
Apriamo l’album dei ricordi, 30 anni dopo i Mondiali italiani. Lei ha postato su Twitter una foto dal ritiro azzurro, in cui ogni giocatore indossava una maglia delle altre 23 nazionali partecipanti...
«Trovammo le maglie in spogliatoio e ognuno scelse la sua. Io presi quella degli Stati Uniti perché mi ricordava le Olimpiadi di Los Angeles 1984, alle quali avevo preso parte. La foto racchiude lo spirito di un grande Mondiale. Un’immagine di fratellanza e di amicizia».
Che cosa le resta di quelle «Notti magiche inseguendo un gol»?
«Il ricordo più bello è legato ai tifosi. Quel mese fu l’apoteosi della bandiera italiana. Dal ritiro di Marino allo stadio di Roma percorrevamo 50 km in pullman fra due ali di folla. Appena arrivati all’Olimpico, sapevamo già che avremmo vinto. Per la semifinale contro l’Argentina, però, lasciammo la capitale andando a giocare a Napoli. E la magia si spezzò».


Lei debuttò negli ottavi di finale contro l’Uruguay, segnando il definitivo 2-0 nel giorno del suo trentesimo compleanno.
«Mi feci un bel regalo. Non ero il prototipo del calciatore amato dal ct Azeglio Vicini. Lui preferiva attaccanti più completi, meno specializzati di me. Mi convocò comunque e sin dal primo giorno ce la misi tutta per convincerlo. Allenamento dopo allenamento, nei suoi occhi percepivo una luce diversa. Sentivo che la mia occasione stava arrivando. L’Uruguay era compatto e non riuscivamo a sfondare. Vicini mi fece cenno di entrare e dissi a me stesso di non sprecare l’opportunità. Nel 1986 andai ai Mondiali in Messico ma non giocai. Stavolta potevo lasciare il segno e le cose andarono bene: feci un assist per l’1-0 di Schillaci, poi firmai il raddoppio su un errore della difesa».
Ben più doloroso il rigore sbagliato contro l’Argentina, che di fatto spezzò il sogno della finale.
«Non rammento nulla delle 24 ore successive a quell’errore dal dischetto, ma ricordo benissimo i minuti precedenti. Finiti i supplementari, mi sedetti a bordo campo, convinto che la mia partita fosse terminata. Invece Vicini venne da me, dicendomi che aveva trovato solo tre rigoristi e chiedendomi se me la sentissi. Gli proposi di fare un altro giro tra i compagni, ma trovò solo Donadoni. A quel punto non ce la feci a dirgli di no. Appena mi alzai, però, avvertii una strana sensazione. Non sentivo le gambe, avevo l’ansia. Tirai poco angolato, il portiere parò. Il resto è buio pesto. Il giorno dopo, rivedendo le immagini in Tv, realizzai che Roberto Baggio fu il primo ad abbracciarmi. Purtroppo quattro anni dopo, in finale, toccò a lui sbagliare».
Mercoledì scorso si sarebbe dovuta disputare Italia-Svizzera per Euro 2020. Aveva già iniziato a studiare i rossocrociati?
«No, ma ricordo molto bene la Svizzera che affrontai da giocatore. Nel 1986 a San Siro, nelle qualificazioni all’Euro, feci un assist ad Altobelli in uno spumeggiante 3-2. Poi ci fu un’amichevole prima di Italia ’90 a Basilea: conservo ancora quella maglia speciale per la 500. partita dei rossocrociati».