«Vlado» è in città e i tifosi della Lazio ancora godono

ROMA
«Vola un’aquila nel cielo». Non fossimo nella capitale, a raccontare della Lazio e del patto di sangue stretto con Vladimir Petkovic, l’inno biancoceleste potrebbe sfociare nel più classico degli incidenti diplomatici. Il Mondiale del 2018, già, con le esultanze di Xhaka e Shaqiri e un polverone rivelatosi fatale. A questo giro, la Nazionale e i suoi giocatori però non c’entrano. È il tecnico a trovarsi in mezzo al palco, sotto i riflettori. Perché sì, al netto dell’attesa pazzesca per la sfida di domani con l’Italia, il ritorno di «Vlado» a Roma è tema di discussione. Un ricordo dolcissimo per gli uni, un pugno allo stomaco per gli altri. Noi, ci siamo rivolti ai primi.
«Come fare l’amore»
«Che signore, Vladimir Petkovic!». Enrico D’Angeli accoglie il nome del ct rossocrociato come la fine del coprifuoco. Una benedizione. In viale Romania, civico 27, tra i quartieri Parioli e Pinciano, gestisce il Grottino del Laziale. Un sacrario del tifo biancoceleste. «Tommaso Maestrelli e lo scudetto della stagione 1973-74 sono inarrivabili, ma la Coppa Italia conquistata da Vlado contro i cuggini della Roma sta subito sotto» afferma, fiero, il proprietario dello storico ritrovo. «Parliamo dell’allenatore che mi e ci ha regalato una delle soddisfazioni più grandi nella vita. Il 26 maggio del 2013 ero all’Olimpico, in Curva Nord, con mio fratello e i miei figli. Si giocava di domenica, il ristorante dunque era chiuso. Vi posso però assicurare che nei giorni successivi il locale ha festeggiato ininterrottamente. Almeno sino ai primi di luglio. I pochi clienti romanisti, va da sé, sparirono per diverse settimane. E che goduria, a tal proposito, vedere Trigoria tappezzata di striscioni contro la squadra e lo staff tecnico giallorossi». Il signor Enrico usa un’analogia sincera. «Quella notte, grazie a Vladimir Petkovic e alla sua Lazio, è stato come fare l’amore».
«I clienti romanisti sparirono»
Al Grottino del Laziale, l’allenatore della Svizzera non è mai passato. «D’altronde era una persona molto riservata» riconosce il nostro interlocutore. «Per certi versi non sembrava appartenere al quel mondo lì. Dei Lotito e dei Tare. Anche per questo motivo l’ho definito un signore». Enrico è un fiume in piena. Gli chiediamo di mostrarci i cimeli del suo regno, fatto di foto e magliette autografate, sciarpe e articoli di giornale ingialliti. E, oltre alla scarpetta sinistra di Giuseppe Massa - protagonista con Giorgio Chinaglia della promozione in A nel 1972 - pesca da uno scaffale una targhetta emblematica. Che ci riporta alla Coppa Italia, a Petkovic e al Ticino: «26 maggio 2013. Stadio Olimpico di Roma. T’ho alzato la coppa in faccia. 71esimo LULIC».
Beh, a fronte di cotanta stima e devozione, se domani sera gli elvetici dovessero fare uno scherzetto all’Italia amici come prima insomma. «Ennò, non famo scherzi» frena subito Enrico. «Un conto è se discutiamo della Lazio e di Petkovic allenatore. Un altro sono gli Azzurri e il match contro la Svizzera. Mi spiace, ma l’Italia è l’Italia». Alziamo le mani e dopo una pasta alla gricia sublime ringraziamo e salutiamo.
«O il patibolo, o la gloria»
Le lodi, a favore del selezionatore della Nazionale, non sono tuttavia terminate. Sull’eredità lasciata da Petkovic a Roma e ai laziali, abbiamo interpellato anche Alessandro Zappulla, giornalista e voce apprezzata di Radiosei - fra le emittenti biancocelesti più conosciute - come pure direttore responsabile del portale lalaziosiamonoi.it. «Sicuramente tra oggi e domani, in prossimità della gara tra Italia e Svizzera, affronteremo il tema Petkovic sulle nostre frequenze» ci dice. «I laziali non hanno mai dimenticato Vlado. È un pezzo del nostro cuore. Una figura positiva. E ciò nonostante il club, sotto la sua guida, abbia vissuto di alti e bassi». Come tutte le strade, a Roma le memorie dei sostenitori biancocelesti portano però a una sola data. E in merito, Zappulla arriva persino ad accostare l’ex Bellinzona ai più grandi: «Sì, la Coppa Italia conquistata nel 2013 vale quasi quanto lo scudetto di Maestrelli. Quella finale fermò la città. Man mano che si avvicinava la sera del 26 maggio, i destini a cui si andava incontro erano agli antipodi. Il patibolo da un lato, la consacrazione più totale dall’altro».
Per dirla sempre con lo speaker di Radiosei, «a essere incoronati sovrani della capitale furono i tifosi laziali». Cosa ricorda, Alessandro, di quei momenti di rara intensità? «Beh, non eravamo così sereni. La Lazio non stava passando un momento particolarmente felice. Anzi. Ricordo che prima della sfida con la Roma scelse di andare in ritiro. Dove, mi è stato detto, Petkovic e il mental coach della squadra fecero un grandissimo lavoro sulla testa dei giocatori».
Quanta curiosità agli inizi
Ma lo sforzo psicofisico fu enorme anche per chi, quella partita, ebbe l’onore di commentarla. «Dopo il triplice fischio finale - indica Zappulla - mi recai in radio. Era l’una di notte, circa. E ricordo che andammo avanti con la diretta sino alla tre. La gente continuava a chiamare, mentre i giocatori erano ubriaci in zona Ponte Milvio. Una festa incredibile, ripeto, paragonabile a quello per uno scudetto».
Eppure, nemmeno un anno prima, l’arrivo di Vladimir Petkovic sulla panchina della Lazio aveva destato tanta sorpresa. E pure un pizzico di scetticismo. «La mattina che venne annunciato il suo ingaggio prevaleva la curiosità» osserva Zappulla. «Non era un nome blasonato. Tutt’altro. Rammento le ricerche per scoprire la storia del nostro nuovo allenatore. Una scelta audace, che alla fine si è però rilevata vincente. Al presidente Claudio Lotito piacciono proprio questi profili, seri e poco inclini a perdersi nei meandri della stampa. Che a Roma possono essere fatali. Certo, a Vlado è mancata una certa apertura ed empatia con l’ambiente esterno e quindi la tifoseria. Il legame con i laziali, in quel caso, sarebbe stato fortissimo».
«Meglio il Mancio giocatore»
In panchina, domani, Vladimir Petkovic non sarà l’unica bandiera della Lazio. Pochi metri più in là, si sbraccerà anche Roberto Mancini. Tra gli artefici dello scudetto conquistato nella stagione 1999-2000, e per due stagioni pure tecnico dei biancocelesti. «Onestamente siamo più affezionati al Mancio giocatore» spiega il giornalista di Radiosei Alessandro Zappulla. «La parentesi da allenatore, dal 2002 al 2004, è stata oscurata da alcuni comportamenti. Quelli erano gli anni delle difficoltà economiche. E si narra che Mancini fu uno dei pochi a non accettare di spalmare lo stipendio». Zappulla parla altresì dei «problemi con Simeone e altri giocatori dell’epoca». Insomma, prosegue, «nel complesso l’attuale ct degli Azzurri non lasciò un ricordo bellissimo nel popolo laziale».
Detto questo, «Roberto Mancini rimane un simbolo nella storia del club biancoceleste. E, considerata anche la carriera ad altissimi livelli in Serie A, è stato un vanto poterlo avere in squadra». Tra i due contendenti, conclude Zappulla, «Petkovic, semplicemente, riporta alla mente un grande successo, meno lontano nel tempo». Domani, allo stadio Olimpico, ve ne sarà in palio uno altrettanto importante.