L’intervista

Webo, la parola «nero» e il razzismo: la parola al professor Patrick Clastres

Ripercorriamo i fatti di Parigi cercando di capire come, dal basso, i calciatori e gli sportivi stiano cambiando la visione delle cose
Pierre Achille Webo lascia il campo. © EPA/Ian Langsdon
Marcello Pelizzari
10.12.2020 06:00

La partita interrotta, nel frattempo, è ripresa. Ma la ferita resta. E fa male: sì, il razzismo esiste. Ancora, nonostante siamo nel 2020. Ne sanno qualcosa i giocatori di Paris Saint-Germain e Basaksehir. Ripercorriamo i fatti del Parco dei Principi assieme a Patrick Clastres, professore di Storia dello sport all’Università di Losanna.

Professore, quale lettura dà ai fatti di Parigi?

«Non sappiamo ancora bene cosa è successo. Ma sappiamo che l’assistente allenatore del Basaksehir e alcuni giocatori hanno inteso la parola ‘‘negro’’. A pronunciarla sarebbe stato il quarto uomo, di nazionalità romena. A quanto pare, nella sua lingua avrebbe detto solo ‘‘nero’’. Ma, evidentemente, non ha capito il peso delle sue parole. Parole che, oggi, non si possono più usare. E quando sei un arbitro internazionale devi viaggiare al ritmo del mondo, non puoi vivere all’ora di Bucarest».

Alcuni, appunto, derubricano l’espressione «nero».

«Le parole hanno un peso e un significato. La linea di difesa della squadra arbitrale è debole. Di più, tradisce un razzismo ordinario, linguistico. Ma io ci vedo anche un deficit a livello di istanze calcistiche».

In che senso?

«Le campagne anti razzismo di UEFA o FIFA sono destinate al pubblico degli stadi o ancora ai giovani. Ma il primo lavoro da fare è un altro: formare chi lavora nel calcio, dai dirigenti ai giocatori passando anche dagli arbitri. Sì, è vero: ci sono degli spettatori razzisti come ci sono dei giovani razzisti. Il vero esempio, però, va dato dai protagonisti».

Secondo lei che parole avrebbe dovuto usare il quarto uomo (o il guardalinee) per richiamare l’attenzione dell’arbitro principale?

«Avrebbe dovuto chiamare per nome Webo, l’assistente del Basaksehir, senza scadere in un giudizio legato al colore. Credo che la classe arbitrale debba conoscere i nomi dei giocatori e di chi si accomoda in panchina. Se dici ‘‘nero’’ dai un giudizio, anche se capisco che nella lingua romena c’è una differenza. In ogni caso non è una parola adatta. In uno stadio, in un contesto come la Champions, non c’è posto per simili espressioni. Fa parte dell’educazione di cui parlavo prima».

Il calcio, forse, per anni è stato un territorio franco: si poteva dire o fare qualsiasi cosa.

«C’è un razzismo banalizzato, sì, anche scendendo al calcio amatoriale. D’altronde è uno sport popolare e spettacolare. Ed è un luogo emozionale, in cui dici e fai cose che, magari, sul luogo di lavoro non diresti o faresti mai. Per fortuna, il vento sta cambiando».

Diciamo che gli sportivi hanno preso coscienza della loro forza collettiva. Prendiamo i fatti di Parigi: le due squadre sono state solidali fra loro

Quanto hanno inciso in questo senso movimenti come «Black Lives Matter»?

«Diciamo che gli sportivi hanno preso coscienza della loro forza collettiva. Prendiamo i fatti di Parigi: le due squadre sono state solidali fra loro. E anche fra i giocatori e lo staff c’era solidarietà. Non solo: i giocatori della stessa squadra erano uniti, compatti. Cosa non scontata, perché spesso in passato di fronte ad episodi del genere i compagni cercavano di far rientrare l’offesa al fine di tornare in campo il prima possibile. ‘‘Black Lives Matter’’ ha liberato la parola e favorito questa solidarietà. Il modello americano si è rivelato efficace, ha dato coraggio e fiducia ai calciatori in Europa. C’è una correlazione evidente, come è evidente il ruolo dei social network nell’informare e nel mobilitare le persone».

Come mai solo adesso?

«Va considerata la posizione, difficile, in cui si trovavano e si trovano i calciatori. Spesso parliamo di giovani, senza un percorso scolastico forte alle spalle, gestiti da allenatori, manager e membri dello staff. Giovani infantilizzati visto che la loro quotidianità e le loro scelte vengono gestite da altri. E attenzione: da contratto non è possibile esprimersi con una certa libertà. Un fatto, questo, da non sottovalutare. Nello sport la legge del silenzio ad oggi è ancora forte. Da soli è complicato attraversare tutte queste barriere».

Chi gestisce lo sport lo vorrebbe come un luogo neutro. Ma è impossibile, vero?

«Io dico che lo sport è uno di quei rari luoghi di agitazione sociale. Tutta la società vi si mescola e, soprattutto, c’è una componente politica forte. Nel senso più ampio del termine. E il mondo, grazie allo sport, può avanzare. Ecco, pensiamo ancora a Parigi: dei lavoratori hanno interrotto l’attività per difendere una causa. Un bel gesto, sul quale costruire».

Il presidente turco Erdogan è subito entrato nella discussione: non c’è il rischio che Parigi diventi uno strumento geopolitico?

«Non credo, anche per il fatto che Webo, l’assistente che ha subito quelle parole, non è un turco. Ha origini africane. E analogamente il PSG non è una squadra francese: i giocatori arrivano da ogni dove mentre la proprietà è qatariota. Siamo più nel campo della solidarietà transnazionale».

Possibile, tornando ad alcune sue considerazioni, che l’UEFA sia in ritardo su queste questioni?

«In effetti è così. Le istanze del calcio inviano dei messaggi di lotta al razzismo al pubblico e ai giovani, quando appunto dovrebbero prima formarsi sul tema. E formare. Oltre a dare l’esempio. Penso proprio a chi gestisce il pallone: è raro, ad esempio, trovare dirigenti di origine africana. Le istanze subiscono gli eventi e ancora un mondo che accelera. Ma la globalizzazione non è solo una cancellazione di frontiere. È anche circolazione di idee, rivendicazioni, solidarietà. E i social network, con il fatto di essere istantanei, permettono di fare cose incredibili dando una forza senza precedenti ai movimenti».

Dicevamo che l’UEFA e la FIFA tendono a favorire un mondo neutro e neutrale, privo di ogni idea politica.

«È un tema discusso. E credo che si confondano le cause ideologiche dalle cause legate ai diritti dell’uomo. Io posso avere determinate idee, non so, su come spendere i soldi pubblici, ma quando si parla di diritti dell’uomo parliamo di una lotta universale. Non è politica nel senso partigiano del termine, è una questione di libertà. Capisco che l’UEFA o la FIFA impediscano ad un giocatore di manifestare il suo amore per Erdogan. Ma se in ballo c’è un valore universale non è politica. Il calcio, allora, si faccia motore di questi cambiamenti. Si faccia motore dell’umanità».

È un caso che l’episodio sia capitato a Parigi, in Francia, culla dei diritti universali?

«Non saprei. Sì, la Francia con il Regno Unito e gli Stati Uniti ha contribuito a creare questi valori. Ma oggi non è certo un Paese esemplare a livello di uguaglianza. Non so se Parigi abbia prodotto un effetto più o meno simbolico. È vero che i giocatori sono più inclini ad abbracciare un movimento se vivono in una democrazia. Mi sorprende, in questo senso, che i turchi abbiano aderito. In generale, gli sportivi fino ad ora avevano un ruolo minore nel contesto sociale. Penso a chi disse a LeBron James di stare zitto e dribblare. Ma non è così. Un atleta, se costruisce un ragionamento e difende una causa, è un intellettuale. Ha il diritto di riflettere sul mondo. Lilian Thuram ai miei occhi è un intellettuale: il suo vissuto è legato al calcio, ma è una conoscenza come può esserlo la medicina oppure la scienza nucleare».