"Che spettacolo il grande calcio! E un po' si apparenta al mio jazz"

A dicembre festeggerà 74 anni, ma nessuno glieli darebbe. Franco Ambrosetti è l'immagine della freschezza e della vitalità. Imprenditore, da ormai alcuni anni ha lasciato la sua azienda, ma in Ticino come presidente della Camera di commercio, che abbandonerà tra pochi giorni, è sempre stato attivissimo. Nel tempo libero che gli rimarrà ora, potrà dedicarsi anima e corpo alla passione che ha coltivato per tutta la vita, riscuotendo un successo planetario: il jazz. Insieme al suo gruppo, nel quale suona anche il figlio Gianluca, Franco Ambrosetti in questo 2015 ha appena sfornato un nuovo CD («After the rain») e per il mese di marzo del prossimo anno ha in programma una serie di concerti negli Stati Uniti. «Cerco comunque di diradare gli impegni, viaggiare e suonare stanca» afferma senza dare l'impressione di essere davvero convinto di quello che dice. Vincitore di prestigiosi premi nella sua lunga carriera, in questa intervista il musicista ci parla del suo rapporto con lo sport.
Le fornisco un assist per permetterle di cominciare sul suo terreno: è vero che ha imparato a suonare la tromba da autodidatta?
«Sì. Però prima ho fatto otto anni di pianoforte classico con la maestra Pasquini, bravissima e severa. A me del classico non me ne fregava nulla, perché non potevo improvvisare. Bisognava essere perfetti. Figuriamoci...».
E il suo rapporto con lo sport?
«Sono la persona più pigra del mondo dal punto di vista fisico, ma invece faccio sempre lavorare la testa. Farmi camminare è una fatica, ma so che mi fa bene e mi sacrifico. L'unico sport che ho praticato per anni è lo sci, ho partecipato anche a un campionato ticinese di discesa. Avevamo una casa a St. Moritz e a tre anni mi hanno messo sulla neve. In Engadina ho anche fatto un anno di liceo quando mi hanno sbattuto fuori dal Papio. Ricordo di essermi presentato agli esami abbronzatissimo, fra tante facce pallide. Alla fine però anche portare in giro scarponi e sci è diventata una fatica e c'era pure il rischio di farsi male. Così ho chiuso».
Però anche suonare la tromba è un bell'esercizio fisico. O no?
«Assolutamente. E ci vuole molto allenamento. Ore e ore tutti i giorni. Adesso sono vecchio e mi accontento di mezzora giornaliera. Soffiare dentro un bocchino di due millimetri è molto faticoso».
È uno sportivo da salotto?
«Alla televisione mi piace lo sci, adoravo Russi, Collombin, Zurbriggen. E le nostre Figini e De Agostini: bravissime. La De Agostini era anche una bella ragazza... Poi mi piace la Formula 1. Meglio: mi piaceva.Oggi è diventato un terreno per il cambio delle gomme, è più logistica che sport. Vengo da una famiglia che per anni ha gestito un'azienda che produceva ruote per la F1. L'aveva fondata mio nonno».
Niente calcio?
«Sì certo. Il grande calcio è uno spettacolo. Mi ricorda il «Cirque du soleil» ricco di emozioni e magie. Ho in mente alcuni gol di Ronaldo, ammiravo molto Eusebio nel grande Portogallo».
Si emoziona quando la Svizzera va ai Mondiali o agli Europei?
«Per la Svizzera sì. Il mio problema è quando gioca contro l'Italia. Sa, le origini della mia famiglia sono italiane, ma io tifo Svizzera. Mi ricordo la grande nazionale degli anni Cinquanta, il 2-1 e il 4-1 sull'Italia ai Mondiali del '54: Parlier, Neury, Bocquet, Vonlanthen, Hügi 2... E poi sono andato a scuola con Vito Gottardi, che ha giocato il Mondiale del '66».
Si discute molto sulla nazionale di oggi, se rappresenta o meno il Paese...
«Per me sì. Gioca gente cresciuta qui, sarebbe assurdo mettere in campo solo atleti con tre generazioni di passaporto alle spalle».
I calciatori guadagnano troppo?
«Forse. Ma non è che in F1 i piloti guadagnino meno. Io non voglio esprimere giudizi morali su queste cose. Vorrei che ci fosse una sorta di par condicio. In proporzione al fatturato, il salario del direttore di una multinazionale è inferiore a quello di Messi, ma nessuno si scandalizza per i soldi dei calciatori, mentre per quelli dei dirigenti d'azienda sì, e si vorrebbero limitarli con le iniziative 1:12 e Minder. Julia Roberts guadagna 20 milioni per fare un film? Se sono soldi privati, frutto del mercato, ognuno faccia quello che vuole».
Che differenza c'è tra tromba e flicorno?
«Fanno parte della stessa famiglia, ma il flicorno ha un suono più dolce, più rotondo. E ti perdona di più rispetto alla tromba. In ogni caso, per suonare l'uno e l'altro occorre allenarsi bene. Come faceva Carl Lewis una volta, o il fenomeno Bolt adesso».
Speriamo che i loro risultati siano dovuti solo all'allenamento...
«Se parliamo di doping nella musica allora non finiamo più. Charly Parker, che nel jazz ha fatto la rivoluzione copernicana inventando il bebop, è morto di eroina a 35 anni e la prendeva da quando ne aveva 16. Quando il medico ha steso il certificato di morte, ha scritto che si trattava di un africano dall'età apparente di 60 anni...
Nella musica il doping c'è sempre stato, prima che nello sport: stimola la creatività, ma alla fine serve al conseguimento di un risultato, come nello sport».
Arrivare al traguardo grazie alle scorciatoie. Significa questo?
«È uno dei mali della nostra società, imperniata oggi sul tutto e subito. Le ragazzine di Roma che si prostituivano per le borsette di Prada! Viviamo nella società dell'apparenza. In economia il profitto è diventato un fine, ma per un vero imprenditore, come lo ero io, il profitto non è un fine, bensì un mezzo per far funzionare l'azienda, migliorarla, ampliarla. Oggi i manager, che sono dei mercenari, sono pagati anche con azioni e opzioni e così sanno di avere dieci anni di tempo per monetizzare. Gonfiano i profitti per far salire le azioni, poi succedono i casini. È il tutto e subito e per un'azienda è sbagliatissimo».
Sbaglio o una compagine jazzistica e una di calcio sono un po' affini: gioco di squadra e solisti, improvvisazione...
«Sì, dai. La similitudine sta sicuramente più col jazz che con la musica classica, anche se l'improvvisazione in origine è stata voluta dai musicisti barocchi. Ma noi siamo creativi, nella classica si suona ciò che sta scritto sullo spartito».
Anche voi musicisti, come gli sportivi, avete un pubblico e una critica. S'è mai arrabbiato per una stroncatura?
«Stroncature ne ho ricevute solo una o due in tutta la vita».
Come Messi, allora.
Risata. «Ho imparato a non leggere più le critiche dei miei concerti. Io non suono per i giornalisti, ma per il pubblico».
Miles Davis ha detto che la storia del jazz si può riassumere in quattro parole: Charly Parker e Louis Armstrong. È d'accordo?
«Si, ma ci metterei anche lui, Miles Davis, un genio creativo».
Nell'immaginario collettivo l'artista non si apparenta molto al suo ritratto: lei è imprenditore e borghese, un po' di destra. Ha avuto difficoltà a farsi accettare?
«All'inizio sì. Specie negli anni della rivoluzione, nel '68 e giù di lì. C'era una sinistra che non mi voleva, critici che hanno scritto cose poco carine. Però non potevano dire che suonavo male, al massimo che non era in forma. Poi, sa, in economia sono di centro-sinistra e piuttosto keynesiano. Per me il vero liberalismo esiste soltanto se tiene conto della socialità e questo fa arricciare il naso a qualche mio socio. Ma me ne infischio».