«Cosa si prova di fronte all’Everest? Emozione, ma anche sconforto»

Ivan Jacoma, assieme ad Alex Fontana e Niki Leutwiler, ha recentemente conquistato la 1.000 chilometri di Le Castellet nella GT World Challenge Pro-Am Class. Eppure, senza nulla togliere a quel successo, quelle vissute sul circuito Paul Ricard non sono state le emozioni più forti della sua primavera. Poche settimane fa il 50.enne ticinese ha infatti tentato la scalata del Lhotse, la quarta vetta più alta della Terra con i suoi 8.516 metri.
Ivan, come si passa dal volante all’Himalaya?«In realtà l’alpinismo è una passione che nutro da prima che mi gettassi nel mondo delle corse. Con gli amici, in giovane età, andavo spesso a fare delle escursioni, ad esempio al Pizzo di Claro. Parliamo di due realtà totalmente diverse, eppure complementari. Anzi, dico spesso che andare in montagna mi aiuta a “contrastare” quanto vivo in pista. Da una parte mi immergo nella velocità, in maniera breve ma intensa. Dall’altra, invece, abbraccio il concetto di pazienza e di accettazione delle variabili naturali, del tutto incontrollabili. Entrambi i mondi hanno comunque lo stesso denominatore comune: il rischio».
Un conto, tuttavia, è arrivare in cima al Pizzo di Claro. Un altro invece è decidere di attaccare la vetta di un «ottomila». Come si organizza una spedizione simile?
«Solitamente quando qualcuno si imbarca in un’avventura di questo genere, è perché prima ha seguito un percorso graduale. O quantomeno, sarebbe consigliato farlo. Nel mio caso, una volta consolidata questa mia passione attraverso la conquista di una ventina di «quattromila», ho pian piano allargato i miei orizzonti. Dapprima scalando il Kilimangiaro (5.895 m) nel 2015, poi il Monte Elbrus (5.642 m) nel 2016 e infine l’Aconcagua (6.961 m) nel 2019. Quest’ultima, peraltro, arrivando in vetta in 6 giorni: un terzo rispetto ai 18 normalmente pianificati dalle spedizioni. Lì mi sono reso conto, anche saggiando la mia tenuta fisica, di poter ambire a un “ottomila”. Ma non avevo ancora fatto i conti con le tempistiche».
In che senso?
«Informandomi, ho appreso che ci vogliono dai 40 ai 50 giorni per scalare una montagna così alta. Un periodo dettato dall’esigenza di permettere al corpo di adattarsi gradualmente all’altitudine, tuttavia troppo prolungato sia per il mio impiego lavorativo (general manager dei centri Porsche Ticino, ndr), sia per la mia attività da pilota. Fortunatamente esiste un modo per ovviare a questo “problema”. Una compagnia austriaca, la “Furtenbach Adventures”, ha sperimentato un sistema per ridurre i tempi di due settimane. Sostanzialmente una parte importante dell’acclimatazione, che normalmente avviene in loco, viene svolta a casa propria dormendo per 6 settimane in una tenda ipossica. In questo modo, quando poi raggiungi l’Himalaya sei già pronto per volare con l’elicottero all’altezza di cinquemila metri».
Tutto chiaro. Come mai però, invece di lanciarti nella scalata del ben più famoso Monte Everest, hai scelto di approcciare il Lhotse? Per chi non lo sapesse, i due colossi sono praticamente vicini di casa. Tanto che parte dell’ascesa è condivisa...
«Io e il mio compagno di avventure, il mio amico Kurt Bionda, condividiamo la stessa filosofia: non vogliamo utilizzare le bombole d’ossigeno. Farlo vorrebbe dire eliminare circa 2.000 metri di dislivello. È un po’ come salire il Monte Ceneri con una bicicletta elettrica, e non una tradizionale. Capite allora che per chi intende scalarlo in maniera “naturale”, l’Everest (8.849 m, ndr) risulta difficilissimo da affrontare. Sopra gli 8.000 metri, nella “zona della morte”, l’aria contiene infatti un terzo dell’ossigeno. È come respirare in un palloncino, e a livello di fatica, 3 o 400 metri di ascesa equivalgono a 5.000 metri dal livello del mare. Tenuto conto di tutto questo, abbiamo dunque optato per il Lhotse e i suoi 8.516 metri, già molto ambiziosi».


Prima hai citato Kurt Bionda, ma alla volta dell’Asia siete partiti in quattro, giusto?
«Esatto. Oltre a me e Kurt, c’erano anche mia moglie Romina e un altro amico, Luca Veronelli. Con loro abbiamo fatto un po’ di trekking d’avvicinamento, scalando ad esempio il Lobuche (6.119 m) per acclimatarci. Poi abbiamo trascorso tutti insieme tre giorni al campo base dell’Everest, dopodiché Romina e Luca sono rientrati a casa».
Stando a quanto hai raccontato sui tuoi profili social, la loro partenza è coincisa con un incontro imprevisto ed emozionante...
«Proprio così! Siccome le previsioni meteo davano cattivo tempo per una settimana, io e Kurt abbiamo approfittato del loro ritorno a Katmandu per “evadere” tre giorni dal campo base dell’Everest, accompagnandoli. Per pura fortuna, nella capitale nepalese abbiamo avuto modo di incontrare Nirmal Purja, il celebre alpinista locale famoso per aver scalato tutti e 14 gli “ottomila” in poco più di 6 mesi. Un’impresa che lui ha denominato “Project Possible 14/7”, recentemente divenuta molto popolare grazie al documentario trasmesso da Netflix “14 vette: scalate ai limiti del possibile”. Oggi come oggi, Purja è l’alpinista più conosciuto al mondo, anche se vanta uno stile completamente diverso rispetto ad altri “mostri sacri” come Reinhold Messner. Il nepalese va in velocità, con l’ossigeno, corde fisse e grosse concentrazioni di persone. Sono spedizioni pianificate in maniera quasi militaresca. Quando qualcuno parte con la sua compagnia, la Elite Exped, tendenzialmente - grazie a tutti gli aiuti - riesce ad arrivare in vetta. Come ho accennato prima, non rispecchia tuttavia la mia concezione di alpinismo».
Hai comunque avuto modo di carpirgli qualche consiglio?
«Certamente. A lui, ma anche all’andorrana Stefi Troguet e allo spagnolo Kílian Jornet, altri due famosi alpinisti contemporanei incrociati lungo il cammino. Parlando con loro, abbiamo capito che il nostro piano - arrivo a 5.000 metri, ascesa del Lobuche, passaggio al campo base dell’Everest (5.364 m) e infine ascesa del Lhotse - non era il più adeguato. Ci hanno tutti consigliato di investire una decina di giorni in più per fare almeno due o tre rotazioni, passando dai 7.000 metri prima di imbarcarci nell’ascesa finale. Col senno di poi, possiamo dire che non avevano torto (ride, ndr). Kurt ha infatti dovuto arrendersi a 7.100 metri per problemi di respirazione e congelamento ai piedi. Mentre io, anche perché mi ero incrinato le costole due giorni prima di partire, in un incidente in pista a Monza, ho gettato la spugna a 7.820 metri. Peccato, entrambi ci tenevamo ad arrivare quantomeno agli 8.000».
Solitamente vivi di adrenalina sia in pista, sia sulle montagne. Che sensazione hai provato quando hai alzato lo sguardo e hai visto il Monte Everest?
«Sinceramente? Un sentimento agrodolce. Da una parte ho avvertito una fortissima emozione, perché finalmente ho potuto godere in prima persona di uno spettacolo mozzafiato, del quale per anni avevo solo letto sui libri. Dall’altra, al tempo stesso, ho però provato un po’ di sconforto, perché quello che si legge sui vari portali online è vero. Oggi ci sono file di “turisti dell’alpinismo” che non sono preparati, e non a caso - di tanto in tanto - qualcuno purtroppo ci rimette la pelle. Parlo di persone che - e non scherzo - farebbero fatica a portare a termine la Claro-Pizzo. E che non sanno nemmeno montare i ramponi. Ma che grazie al tipo di spedizione di cui parlavo prima, si lanciano comunque in imprese non adeguate, rischiando di morire non solo nell’ascesa, ma anche nel ritorno a valle. Ecco, questo aspetto mi ha rattristato molto. Una volta ad assumersi certi rischi era una nicchia di persone fuori di testa, che partiva e si prendeva 3 o 4 mesi per affrontare una scalata. Adesso è parzialmente diventata un’attrazione turistica».


Se oggi, a qualche settimana di distanza, ripensi a questa avventura, cosa ti resta?
«Qualcuno potrebbe dire amarezza o delusione, ma in realtà queste sensazioni le avevo provate più che altro a Monza, prima della partenza. Dopo l’incidente avevo infatti capito subito che a causa dell’infortunio difficilmente sarei arrivato in vetta al Lhotse. Anzi, altri avrebbero probabilmente annullato il viaggio. Non mi pento di essere partito lo stesso, perché in Nepal ho quantomeno avuto la conferma che a livello di tenuta fisica la scalata non mi ha creato difficoltà. Sono stati i problemi di respirazione, dettati dalle costole incrinate, a debilitarmi. Pazienza, la prendo con filosofia. Ho accumulato un bel po’ di esperienza, raccogliendo informazioni preziose che in futuro torneranno utili quando proverò a scalare un’ottomila per la terza volta».
Hai già un obiettivo in mente?
«Il Manaslu (8.163 m), l’ottava vetta più alta della Terra. Avevamo già provato a scalarla in precedenza, dovendoci però arrendere anche in quell’occasione, a causa delle cattive condizioni meteorologiche. Per fascino e accessibilità, essendo più bassa del Lhotse, è diventata un po’ il mio pallino. Vedremo, magari già nel 2024 torneremo alla carica».
Volevo chiudere con una battuta, dicendoti che quantomeno sul tuo profilo Instagram, narrando la vostra impresa, avevi superato gli «ottomila» follower. Nel frattempo, però, sei quasi arrivato a 11.000. Un successo clamoroso...
«Già quando abbiamo sfidato il Manaslu avevo avvertito un forte interesse nel seguirci. Mi aveva fatto molto piacere, spingendomi a ripetere la “narrazione” anche sul Lhotse. Avere rete così in alto non è semplice, bisogna acquistare delle tessere e non sempre c’è campo. Ma ci ho comunque provato (altra risata, ndr). Credo che ormai sul mio profilo sia avvenuta l’unione di due mondi e dei rispettivi appassionati: quello dell’alpinismo e quello dei motori. E poi bisogna ammetterlo, le foto scattate in compagnia dei grandi alpinisti citati in precedenza hanno un po’ gonfiato il mio seguito (sorride, ndr)».