«Da Mila e Shiro all’impresa rossocrociata»

Ieri, nonostante la sconfitta casalinga contro l’Austria (2-3), la Nazionale svizzera femminile ha ottenuto una storica qualificazione agli Europei di quest’anno. Ne parliamo con l’unica ticinese in campo, Thays Deprati, libero titolare della selezione rossocrociata.
Thays, come ci si sente dopo aver scritto una pagina di storia del volley svizzero?
«Fino a stamattina non avevo ancora realizzato del tutto. Poi, una volta scesa dal letto e preso in mano il telefono, ho iniziato a leggere qualche articolo e tantissimi messaggi, rendendomi conto di aver fatto qualcosa di enorme».
La qualificazione era un obiettivo?
«Già quattro anni fa il nostro allenatore, Timo Lippuner, ci aveva detto che forse, nel 2018, avremmo avuto una chance. A quei tempi nessuno ci credeva veramente, ma quest’estate qualcosa è cambiato. Siamo finite in un buon girone e abbiamo capito di potercela fare. In agosto abbiamo infatti vinto tre partite, poi mercoledì abbiamo completato l’opera».
A Schönenwerd vi bastava vincere due set. Infatti siete andate sul 2-0 prima di mollare la presa e perdere 2-3.
«Con la qualificazione già in tasca sono venute a mancare la concentrazione e l’energia. Volevamo comunque vincere, ma dentro di noi sentivamo di aver già raggiunto il traguardo. Il pensiero di tutte era proprio quello: ‘‘È finita, finalmente ce l’abbiamo fatta’’. Eravamo contentissime, fiere, appagate: per questa qualificazione abbiamo lavorato tanto».
Gli Europei sono in programma tra fine agosto e inizio settembre: ci andrete con il desiderio di stupire ancora?
«Non voglio guardare così in là. Preferisco godermi il momento. Quando verrà sorteggiato il nostro girone, capiremo meglio ciò che sarà possibile fare».
Lo consideri il traguardo più importante della tua carriera?
«Sì. Siamo le prime giocatrici svizzere ad aver centrato questo obiettivo, per tutte noi significa molto. Giocare un Europeo è un’opportunità incredibile».

Questo exploit ci dice che la pallavolo svizzera sta particolarmente bene?
«No, non sta così bene. Nel nostro caso c’era un gruppo disposto a fare diversi sacrifici. Volevamo compiere questa impresa e abbiamo messo da parte tutto il resto. Gli ultimi anni non sono stati facili, ma siamo state ripagate. Purtroppo a livello di sponsor, scuole e così via, non c’è chissà quale sostegno per il volley. Va sempre meglio, sì, ma dipende molto da noi. Anche nei club: facciamo gli stessi sforzi delle straniere, ma a livello finanziario non ci viene dato molto valore».
Parliamo del tuo ruolo: libero, ovvero specialista della difesa. Ci si nasce o ci si diventa?
«Entrambe le cose. Ci si nasce perché di solito la giocatrice più bassa viene scelta per fare il libero. Poi ci si diventa, perché richiede tanto allenamento. Bisogna lavorarci continuamente, soprattutto sul piano mentale. In campo ho un mucchio di responsabilità e devo essere costante. Solo con l’esperienza si riesce ad interpretare al meglio questo ruolo».
La base di una buona ricezione è la calma. Sapendo che metà dei servizi arrivano su di te, come gestisci quei pochi istanti prima della battuta avversaria?
«L’obiettivo è uno solo: dare alla palleggiatrice la miglior palla possibile. Mi concentro su quello. Dietro c’è anche tanta preparazione tattica, per cui bisogna anticipare le intenzioni dell’avversaria».
Quando lo schiacciatore sbaglia dà spesso la colpa al palleggiatore; quando il palleggiatore sbaglia dà spesso la colpa al ricevitore. Il ricevitore, invece, non può prendersela con nessuno. Lo diceva Julio Velasco, un grande allenatore. Ti piace questa responsabilità?
«All’inizio è stata dura conviverci. Adesso, invece, apprezzo ogni cosa di questo ruolo. Soprattutto per l’impatto che ha sulla squadra. Se svolgo un buon lavoro, metto le compagne in condizione di fare bene il loro. Il libero è un ruolo difensivo, ma è alla base di un buon attacco».
Una grande difesa ti esalta come una schiacciata può esaltare le attaccanti?
«Io mi carico molto quando una mia grande difesa o una mia ricezione perfetta permettono a qualcuno di fare un bel punto. Sono i momenti che emozionalmente mi fanno sentire più partecipe».
A 26 anni ci si sente già delle veterane nella nazionale svizzera?
«Decisamente. Inizialmente essere la più anziana di tutte mi ha messo in difficoltà, perché nemmeno io avevo una grande esperienza a questi livelli. Col passare del tempo, però, ho preso le misure. La nostra è una squadra giovane, ma matura. Non noto grandi differenze».


Anche tu, come molte giocatrici, ti sei avvicinata alla pallavolo grazie a un cartone animato giapponese: «Mila e Shiro». Le immagini di quegli allenamenti brutali non ti terrorizzavano?
«Effettivamente Mila soffriva parecchio, poverina. Però, nonostante tutte quelle pallonate in faccia, non mollava mai. Lottava per il suo obiettivo e questo mi motivava. Io comunque guardavo anche ‘‘Holly e Benji’’, il cartone sul calcio».

Il tuo primo impatto con il volley è però stato traumatico...
«La prima volta, a 8 anni, ho smesso subito. Io volevo giocare a pallavolo, invece mi fecero fare delle capriole con il pallone. Non mi piaceva, non ci riuscivo, mi mettevo a piangere. Oggi, come libero, le piroette sono il mio pane quotidiano».
Cosa ti ha convinto a dare una seconda chance alla pallavolo?
«C’era attrazione. Mi piacevano ancora Mila e Shiro. E poi non mi ci vedevo alle prese con un altro sport. Avevo anche due amiche che giocavano, così a 13 anni sono tornata sotto rete a Giubiasco. Questo club, per me, è casa. La base di tutto. Mi ha permesso di muovere i primi passi e di ottenere molto presto dei buoni risultati, che a loro volta mi hanno dato una spinta per continuare. Ho avuto degli allenatori che dal punto di vista tecnico hanno svolto un buon lavoro».
Poi sei passata al Bellinzona...
«Mi ci hanno un po’ buttata, coinvolgendomi nel progetto per risalire in LNA. Ci si allenava a un livello più alto, c’erano delle straniere. Avevo una compagna, la russa Tatiana Menchova, che aveva preso parte alle Olimpiadi di Barcellona del 1992, quando io ero appena nata. Ero la più giovane, ma ero già titolare. C’era dunque un po’ di pressione, ma non la subivo più di tanto. La avverto di più ora, perché essendo una delle più esperte ho anche maggiori responsabilità».
Appena ti sei trasferita a Zurigo per motivi di studio hai fatto un passo indietro a livello pallavolistico. Perché?
«In realtà già durante l’ultima stagione in Ticino ero tornata al Giubiasco per preparare al meglio gli esami di maturità liceale. Poi, all’inizio della mia avventura accademica, non mi sembrava il caso di giocare ad alti livelli. Non ne sentivo il bisogno. Sono andata ad alcuni allenamenti organizzati dall’università, ho conosciuto nuova gente e in tanti mi hanno detto che dovevo tornare a fare le cose sul serio, in una squadra vera. Sono così andata in Prima Lega, pensando di farlo solo come hobby. Ma il destino ha voluto altrimenti. Mi ha notato l’attuale allenatore della Nazionale, Timo Lippuner, che mi ha portata all’Aesch Pfeffingen, in LNA. Ha visto qualcosa in me e posso solo ringraziarlo. A quei tempi non pensavo più di tornare in A. Era un capitolo chiuso. Invece è ripartito tutto».
Molte ragazze svizzere, per provare a vivere di pallavolo, scelgono il beach volley. Tu sei anche mezza brasiliana: che rapporto hai con la sabbia?
«Mi piace molto. Però l’opportunità l’ho avuta in palestra e ho colto quella. Sono contenta. Nel beach volley incontri quasi sempre le stesse persone, mentre nell’indoor è tutto più variato».
Il futuro cosa ti riserva?
«Ho tante idee, ma nulla di concreto. Il contratto con il Düdingen scade a fine stagione, ma se dovessi restare in Svizzera rimarrei volentieri qui. C’è anche il sogno di giocare all’estero. So che è difficile da realizzare, ma non si sa mai».
A Lugano c’è una squadra di A...
«Sono ancora troppo giovane per tornare in Ticino (ride, ndr.). Magari un giorno, chissà. Quando smetterò di giocare, inoltre, so già di voler allenare. Ho già iniziato a farlo a livello giovanile. Tutte le esperienze che sto vivendo oggi in campo mi aiuteranno a dare consigli utili alle pallavoliste di domani».
In Ticino la pallavolo femminile vanta un bel movimento giovanile, vero?
«Eccome. Si lavora bene anche tecnicamente. Però manca sempre il passo successivo: sono pochissime quelle che continuano dopo aver finito la scuola».
Il tuo percorso di studi è molto ricco, tra storia, geografia, politica, diritto... Cosa ci dice di te questo curriculum?
«Che mi piace un po’ di tutto. Amo imparare, mi tengo informata. Voglio sapere cosa è successo prima di noi, ma anche capire cosa sta accadendo adesso».
Quindi le Universiadi alle quali hai preso parte due volte sono state anche delle occasioni per conoscere il mondo?
«Esatto. Un’esperienza unica, che auguro a qualsiasi sportivo. Sembra di essere alle Olimpiadi, ma a livello universitario. Sono state una grande spinta: conosci gente che fa la tua stessa vita, tra studio e allenamenti. Spesso ci si dimentica di non essere i soli a fare certi sacrifici».