Il reportage

Dentro al cuore dell'antidoping, dove nessuno vuole risultare positivo

Il Laboratorio svizzero d'analisi del doping, a Losanna, ha aperto eccezionalmente le sue porte: tra metodi di rilevamento sofisticati e massima discrezione, ecco che cosa abbiamo scoperto durante la nostra visita
©KEYSTONE/JEAN-CHRISTOPHE BOTT
30.12.2025 06:00

Un robot riempie alcuni contenitori con reagenti chimici. Un altro macchinario, intanto, aspira l’urina di un atleta e la trasferisce in diverse provette. In alcune ne versa diversi millilitri, in altre solo poche gocce, a seconda delle analisi previste. «Quando ho iniziato a lavorare qui - racconta un collaboratore -, questo processo veniva svolto manualmente. Analizzavamo circa seimila campioni all’anno, mentre oggi superiamo quota ventimila. Tutto è diventato più efficiente e preciso». Già, al Laboratoire suisse d’analyse du dopage (LAD) non sono consentiti errori. Un solo caso di falso positivo innescherebbe un’indagine di qualità dell’Agenzia mondiale antidoping (WADA), e metterebbe a serio rischio l’accreditamento del laboratorio.

I Giochi passano anche da qui

Il LAD di Losanna è uno dei trenta laboratori accreditati al mondo per svolgere le analisi antidoping, nonché l’unico in Svizzera. In occasione del suo 35. anniversario, ha deciso di accoglierci al suo interno. «A meno di due mesi dall’inizio delle Olimpiadi, è anche l’occasione giusta per divulgare come funziona concretamente la lotta al doping e quale sia il ruolo del nostro laboratorio», spiega ai media la direttrice Dr. Tiia Kuuranne. Durante i Giochi di Milano Cortina, le provette saranno tuttavia prevalentemente analizzate dal laboratorio di Roma. La ragione è soprattutto logistica: i campioni di sangue, ad esempio, devono essere esaminati in tempi molto brevi, entro circa due giorni dal prelievo. Ad ogni modo, Losanna non resterà ai margini. Per poter partecipare alle Olimpiadi, infatti, ogni atleta deve sottoporsi ad almeno un controllo nei mesi precedenti, e molte fiale arrivano già ora al LAD. Magari anche quelle di Marco Odermatt o di Wendy Holdener. Al laboratorio, però, non lo sapranno mai. Per garantire correttezza e riservatezza, infatti, i campioni sono totalmente anonimi e identificati solo tramite codici numerici. Unicamente le informazioni indispensabili all’interpretazione dei dati - genere, età e disciplina - vengono trasmesse. Ma vediamo quindi come funziona il processo del controllo antidoping.

Dalla raccolta del campione…

Durante la raccolta delle urine, vengono prelevati due campioni. È l’atleta stesso a travasare il liquido dal contenitore medico in due bottigliette «gemelle». «Ogni kit ha un proprio codice ed è lo sportivo a sceglierlo, magari cercando il suo numero fortunato - racconta sorridendo un collaboratore -. Ed è sempre l’atleta stesso a sigillare personalmente le due bottiglie». Le fiale giungono poi al laboratorio per posta, proprio come i pacchi che arrivano nelle nostre case: «Anche a noi - spiegano al LAD - può capitare che la consegna arrivi in ritardo, o che venga controllata alla dogana». La prima operazione consiste dunque nel verificare che i contenitori non si siano danneggiati durante il trasporto e, soprattutto, che nessuno abbia tentato di manometterli. Le bottigliette, infatti, possono essere aperte solo rompendo il sigillo, rendendo immediatamente evidente qualsiasi tentativo di compromissione.

Se tutto è nella norma, uno dei due campioni viene subito congelato: servirà in caso di ricorso e potrà essere aperto solo in presenza dell’atleta coinvolto. L’altro - il cosiddetto campione A - viene invece sottoposto alla procedura di aliquotazione, operata dal macchinario descritto a inizio articolo.

…ai risultati

A questo punto, un collaboratore ci guida al piano inferiore, dove avvengono le analisi vere e proprie. La stanza non è molto grande, e il rumore dei macchinari ci costringe a tendere l’orecchio per riuscire a cogliere le spiegazioni dei due tecnici. «Alcune delle macchine che vedete costano 400–500 mila franchi l’una, sono estremamente avanzate e riescono a rilevare anche quantità davvero minime di una sostanza. Ciononostante, non possono fare tutto da sole: spetta a noi interpretare correttamente i risultati e verificare la coerenza tra i dati. Il merito è dunque condiviso», spiegano. Si pensi, ad esempio, alle sostanze endogene - cioè prodotte naturalmente dal corpo umano - come il testosterone, che possono essere anche utilizzate come agenti dopanti. Anche in questi casi, il laboratorio deve stabilire con certezza se un picco nei valori derivi da una produzione fisiologica elevata, oppure da un’introduzione esterna della sostanza.

Il tasso di positività, a fronte di oltre 250 mila test effettuati annualmente, è dell’1-2%
Tiia Kuuranne, direttrice del LAD

Per verificare che gli standard di qualità siano sempre rispettati, la WADA può inserire campioni «double-blind» - ovvero contenenti volutamente una sostanza dopante - all’interno di una normale consegna. Il mancato riconoscimento fa perdere «punti» al laboratorio e, superata una certa soglia, può portare fino alla revoca dell’accreditamento.

Questione di passaporto

Supponiamo però che un atleta utilizzi una microdose di sostanza dopante, destinata a restare nel corpo solo poche ore. Oppure che ricorra all’EPO o a trasfusioni di sangue per aumentare il numero di globuli rossi, fondamentali per il trasporto dell’ossigeno. Com’è possibile individuare e sanzionare pratiche di questo tipo? Qui entra in gioco il passaporto biologico. Pur restando anonima l’identità dell’atleta, grazie al numero identificativo è possibile tracciare i suoi valori biologici nel corso del tempo. Gli esperti possono così valutare se il profilo presenta evoluzioni sospette, al di fuori delle normali variazioni. In tal caso si può procedere con test mirati supplementari, o arrivare direttamente a una sanzione, qualora tutte le altre spiegazioni plausibili vengano escluse. «Siamo particolarmente orgogliosi del concetto di passaporto biologico, perché è nato proprio qui a Losanna», racconta Tiia Kuuranne. «La WADA impone a ogni laboratorio di destinare almeno il 7% del proprio budget alla ricerca. Questo permette di sviluppare analisi sempre più efficaci e di restare un passo avanti rispetto a chi tenta di doparsi. Al LAD utilizziamo gran parte dei fondi di ricerca proprio per perfezionare il passaporto biologico e tutto ciò che lo circonda».

Restituire la medaglia

Per concludere il tour del laboratorio, ci dirigiamo nella sala dove i campioni vengono conservati. Ci sono circa dieci congelatori dedicati alle urine, oltre a celle refrigeranti per altri tipi di campioni, per un totale di decine di migliaia di bottigliette. I campioni - viene spiegato - devono essere mantenuti almeno tre mesi nel caso delle urine e un mese nel caso del sangue intero, nell’eventualità che un atleta richieda una contro-analisi. Talvolta, però, le autorità di test possono richiedere uno stoccaggio a lungo termine fino a dieci anni. In questo modo, se nel frattempo emergono nuove tecnologie o nuovi metodi di rilevazione, i campioni possono essere analizzati nuovamente. Insomma, anche un atleta che oggi crede di averla fatta franca potrebbe ritrovarsi, tra qualche anno, nella condizione di dover restituire la medaglia olimpica.

Ma c’è ancora chi fa il furbo?

Dopo aver ascoltato le spiegazioni, una domanda sorge spontanea: nonostante i sistemi di rilevazione sempre più avanzati, c’è ancora qualcuno che prova a ottenere vantaggi illegalmente? «Il tasso di positività è dell’1-2%», svela la direttrice del LAD. «Stabilire se sia “tanto” o “poco” porterebbe a discussioni infinite. Ma considerando che a livello mondiale vengono effettuati oltre 250 mila test all’anno, il 2% corrisponde comunque a qualche migliaio di casi, un dato non trascurabile. Anche per noi, come laboratorio, ogni caso positivo genera sentimenti contrastanti: da un lato siamo soddisfatti perché le nostre metodiche funzionano, dall’altro significa che lo sport non è sempre pulito».

In questo tasso di positività rientrano anche le contaminazioni accidentali, ad esempio quantità irrisorie di sostanze presenti per errore nella carne o negli integratori alimentari. In tali situazioni non è il laboratorio a decidere, bensì le autorità di test, che ascoltano le spiegazioni dell’atleta e traggono le conclusioni del caso. Emblematico, in questo senso, il caso di Jannik Sinner, risultato positivo nel 2024 a tracce di Clostebol, con la WADA che ha accolto la tesi della contaminazione involontaria attraverso uno spray fisioterapico.

Per finire, chiediamo alla direttrice Kuuranne se, di fronte a un nuovo record, le sorga mai qualche sospetto: «Fortunatamente riesco ancora a godermi gli eventi sportivi senza pensare se vi siano di mezzo aiuti illegali. Preferisco credere che il nostro lavoro serva proprio a garantire agli atleti una scelta reale: quella di competere senza doping».

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